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 2009  agosto 18 Martedì calendario

QUEGLI SHOW CHE MI HANNO CAMBIATO LA VITA ASCANIO CELESTINI


«Il teatro in casa nei racconti di mio padre»

L’attore: diceva della guerra in mille versioni

Ascanio Celestini sta girando l’Italia accompagnato da tre musi­cisti, per un concerto, «Parole san­te », che è il suo esordio musicale. Parole sante. Si ha l’impressione che tutte le parole, anche le più ap­parentemente insignificanti, sia­no sante per un attore-narratore che non recita né interpreta ma semplicemente racconta storie a volte stravaganti fino all’assurdo, a volte drammatiche. Sono storie che non nascono dalla scrittura ma dall’oralità, dove niente va but­tato via e persino le pause e le in­certezze sono santificate dalla vo­ce, figurarsi le parole. Dunque, la svolta della vita. Siamo nel 2000, Ascanio ha ventotto anni e da cin­que fa teatro di strada, come piace a lui, nelle periferie romane, che sono più o meno le sue.

Nelle storie che narrava c’era spesso la guerra, anche la guerra che suo padre Nino raccontava in famiglia: «Mio padre si metteva a raccontare nelle occasioni più va­rie, spesso nei giorni di festa, Nata­le o Pasqua, attorno al tavolo: non per scelta deliberata, ma perché si formava il contesto giusto, con un uditorio familiare che per tanti an­ni gli chiedeva: ’Nino, raccontaci di quando ti ha sparato il tede­sco… Raccontaci della cipolla in mezzo alla strada…’. In casa gli ve­niva riconosciuta questa qualità. Mio padre raccontava sempre in maniera diversa, aggiungendo di­gressioni e togliendo parti che in quel momento non gli sembrava­no interessanti». Probabilmente da lì è nato l’interesse di studio che Ascanio ha maturato negli an­ni, tra antropologia e etnologia: «La voce di mio padre è entrata an­che in una mia serie radiofonica di storie di vita intitolata ’Guerra e pace’». Quando, nel febbraio 2003, il raccontatore casalingo Ni­no Celestini muore, suo figlio Ascanio, che aveva registrato le sue storie, comincia a raccontare le vicende del padre sul 4 giugno 1944, il giorno della Liberazione di Roma. Ne sarebbe nato, l’anno dopo, lo spettacolo «Scemo di guerra», dove c’è un nonno che fa la maschera al cinema Iris, sulla via Nomentana e un padre che, co­me scrive Celestini in un libro che accompagna il dvd di «Radio clan­destina », «giocava con i residuati bellici o si guardava il bombarda­mento di Centocelle dal muretto sotto casa sua, come un ragazzino qualunque guarderebbe i fuochi artificiali».

Ma a quell’epoca Celestini ave­va già alle spalle un’esperienza di lavoro sulla memoria collettiva della guerra. Dunque torniamo al 2000. In luglio Celestini vince un concorso per il Teatro di Roma, ha da poco iniziato a lavorare da solo e a girare in tournée: «Dopo il ser­vizio civile ero in dubbio se fare l’antropologo o lavorare in coope­rativa sul disagio, ma nel ”98 deci­si di dedicarmi al teatro a tempo pieno e di vivere di quello». Acca­de allora che Mario Martone, diret­tore del Teatro di Roma, gli propo­ne di partecipare alla rassegna «I luoghi della memoria»: «Mi ha det­to: ti andrebbe di lavorare su un li­bro di Alessandro Portelli, ’L’ordi­ne è già stato eseguito’?». Ascanio va a comperarlo alla libreria di Lar­go Argentina: «Il libro raccontava l’eccidio delle Fosse Ardeatine, at­traverso duecento testimonianze di persone legate a quella vicenda: non era un’inchie­sta e non rivelava niente di nuovo, ma era un libro scandaloso, per­ché riferiva di sto­rie che avevamo dimenticato, cercando di inserire quei giorni del 23 e 24 luglio 1944 in un contesto più ampio, che par­tiva dalla Roma dell’800 e arrivava fino ai nostri giorni. E alla storia si aggiungevano le storie della gen­te ».

La storia della moglie di Romo­lo Gigliozzi che va a portare il cam­bio pulito a Regina Coeli e capisce che il marito è morto perché non gli danno indietro i panni sporchi. La storia degli abitanti del Testac­cio che «era l’India alle porte di Ro­ma », dove dicevano che nelle case si dormiva in piedi. La storia di Giuseppina Ferola che la domeni­ca va alle Fosse Ardeatine in auto­bus e lì incontra le madri che dico­no che «le mogli non potevano ca­pire il dolore della madre». Ne vie­ne fuori lo spettacolo teatrale «Ra­dio clandestina»: «Ho scoperto al­lora che l’oralità ha una sua for­ma: il testo parlato è elaborato quasi come un testo scritto nella scelta delle parole e nella costru­zione. Quello che in letteratura chiamiamo stile c’è anche nella quotidianità della voce che parla, nei discorsi che facciamo al bar. Potrei fare una tesi su come parla il mio vicino di casa esattamente come farei una tesi su Hemin­gway ».

Le voci raccolte da Portelli era­no voci frammentarie, diverse tra loro, a volte, nelle singole prospet­tive, lontane dalla verità storica e distorte dalle nebbie del ricordo: « nato lì, con quell’esperienza, il mio approccio all’evento storico attraverso il lavoro sulla memoria orale». Sulle memorie orali, al plu­rale: «Mi sono accorto che la mag­gior parte delle persone racconta­vano scene molto difformi tra loro e molto lontane da quel che davve­ro accadde: in genere attribuivano la colpa dell’eccidio ai partigiani molto più che ai tedeschi. C’era una vulgata antiresistenziale. Dun­que, io mi trovai tra due possibili­tà: ricostruire la realtà storica co­me fossi un professore di scuola media o tradire i fatti con una nar­razione antistorica. Scelsi una ter­za via: raccontare attraverso le tan­te memorie contraddittorie ade­rendo il più possibile alle testimo­nianze orali». Quell’esperienza sarà un’onda lunga che avrà i suoi effetti fino ad anni più recenti, fino a «La pe­cora nera», del 2007, che raccoglie le testimonianze degli infermieri nei manicomi degli anni Sessanta. E anzi fino all’ulti­mo libro di Celesti­ni, «Lotta di clas­se » (Einaudi), do­ve a parlare non sono più i vecchi testimoni della guerra, ma i condomini di un pa­lazzo di cinque piani, appena fuori dal Raccordo Anulare: «Quando racconto penso alle immagini e al­le scene, come per spiegare a qual­cuno la strada per arrivare in un posto: cerchi di immaginare le vie, non le parole. Così, credo, rac­contava anche mio padre».