Varie, 20 agosto 2009
GIAPPONE PER VOCE ARANCIO
Il Giappone, la seconda potenza economica del mondo e la prima dell’Asia (il suo pil è superiore a quelli di India e Cina messi insieme), il 30 agosto voterà per il rinnovo della Camera Bassa: secondo le previsioni, i liberaldemocratici del Jiminto (Ldp), al potere da oltre cinquant’anni tranne una pausa di 10 mesi nel 1993, questa volta dovrebbero essere destinati alla sconfitta lasciando il passo ai Democratici del Minshuto (Ppj).
L’Italia è al ventesimo posto tra i partner commerciali del Giappone (dati Ice): da gennaio a maggio abbiamo esportato nel Sol Levante merci per 236 miliardi di yen (cambio intorno a 0,75 euro) e ne abbiamo importate per 190 miliardi. Per quanto riguarda le nostre esportazioni, la classifica è guidata dai lavori in cuoio e pelle (30 miliardi nel periodo sopraccitato), seguiti da prodotti farmaceutici (25), apparecchi meccanici (21), autoveicoli (19), abbigliamento e accessori in tessuto (18), prodotti chimici organici (16), calzature (10). Dal Giappone importiamo soprattutto autoveicoli (54), apparecchi meccanici (33), macchine elettriche (21), prodotti chimici organici (16), strumenti d’ottica di misura e chirurgici (11).
Il ripetersi delle notizie sui turisti giapponesi spennati in Italia ha portato a un rapido declino dei flussi turistici dal Sol Levante al nostro Paese. Il quotidiano Asahi Shimbun, il più diffuso del Giappone (8 milioni di copie nell’edizione del mattino, 3,4 milioni in quella del pomeriggio), ha spiegato che l’Italia, un tempo famosa tra i turisti nipponici per la convenienza degli acquisti e il fascino dei monumenti, non attrae più i vacanzieri giapponesi, che preferiscono andare in Germania e in Francia. Secondo i dati dell’Ente del turismo italiano, dai 2,17 milioni di turisti del 1997 si è scesi agli 1,47 milioni del 2007. Negli ultimi due anni, complice anche la crisi economica, le cose sarebbero ulteriormente peggiorate.
Se i giapponesi seguono con grande interesse le vicende di Silvio Berlusconi (lo ha spiegato in una recente intervista alla Stampa il direttore dell’Asahi Shimbun), il leader democratico Yukio Hatoyama è legato da un’antica amicizia a Romano Prodi, cui avrà certamente chiesto cosa significhi portare per la prima volta al potere un partito. Classe 1947, Hatoyama è però bisnipote dello speaker del primo parlamento democratico, nipote di un premier nell’immediato dopoguerra, figlio di un ex ministro degli Esteri e dell’erede dell’impero Ishibashi (quello delle gomme Bridgestone), un curriculum che non tranquillizza quanti ritengono il nepotismo un dei peggiori mali del Giappone.
Un terzo dei parlamentari giapponesi e due terzi dei ministri sono figli d’arte. Il premier uscente Taro Aso, per fare un altro esempio, ha per nonno Shigeru Yoshida, primo ministro passato alla storia per il suo autoritarismo, e per suocero Zenko Suzuki, altro ex capo del governo. Rampollo di una delle più ricche famiglie del Sud (latifondi, industrie, tv), prima di darsi alla politica ha studiato negli Stati Uniti e in Inghilterra ed è stato mercante di diamanti in Sierra Leone oltre che tiratore a volo tanto in gamba da partecipare alle olimpiadi di Montreal (1976). Avendo una sorella sposata con un cugino del principe Akihito, è pure imparentato con la famiglia imperiale.
In carica dal settembre 2008, Aso fu scelto dai conservatori in un momento di crisi nera, quando erano appena usciti dal secondo fiasco consecutivo segnato dalle dimissioni di Shinzo Abe e Yasuo Fukuda. Fama di elegantone (anche se pure i suoi connazionali sono inorriditi per il completo acquamarina sfoggiato all’ultimo G8 dell’Aquila), era già stato due volte ministro nei governi di Junichiro Koizumi ed aveva guadagnato una certa popolarità tra i giovani grazie alla passione per i fumetti e i videogiochi, mentre i più anziani ne apprezzavano le posizioni ultranazionaliste e anticinesi. Con l’arrivo della crisi economica, però, molti elettori gli hanno voltato le spalle.
Durante la campagna elettorale i contendenti si sono concentrati soprattutto sulle ricette per uscire dalla crisi: con un pil in picchiata (meno 15,2 per cento nei primi sei mesi del 2009, secondo le previsioni di inizio anno), un debito pubblico alle stelle (oltre il 180 per cento in rapporto al pil), un aumento della disoccupazione a livelli mai visti da quelle parti nel dopoguerra (5,2 per cento), una ”precarizzazione” del mondo del lavoro apparentemente inarrestabile (solo il 30% dei giapponesi ha un impiego a tempo indeterminato), tutti concordano che il sistema-Paese ha urgente bisogno di molti aggiustamenti.
Secondo i democratici, il boom del lavoro precario è dovuto alla riforma varata nel 2004 dall’allora premier Koizumi. Makoto Kawazoe, leader di Seinen Union, nuovo sindacato che sta cercando di organizzare i precari, spiega che all’inizio tutti erano contenti perché le aziende risparmiavano sui costi e i lavoratori pagavano meno tasse, ma quando il meccanismo è saltato i lavoratori flessibili sono stati i primi a essere licenziati. Con l’aggravarsi della crisi in Giappone si è preso a parlare sempre più spesso di haken (lavoratori temporanei) che diventano hiatoi (lavoratori giornalieri), sfruttati dai tekiya (emissari della yakuza, la mafia locale) fin quando, nel più sfortunato dei casi, perdono l’impiego e diventano homoresu (senzatetto). La situazione è così grave che da marzo ci sono stati in media 100 suicidi al giorno (complice un sistema che non li esclude dalle assicurazioni sulla vita).
Dalla fine della seconda guerra mondiale, la situazione politica giapponese ha ricalcato per decenni quella italiana: il Partito liberaldemocratico, nato nella prima metà degli anni Cinquanta con un orientamento moderato-conservatore che ricorda la nostra Democrazia cristiana (tanto che si parla di ”balena gialla” e ”balena bianca”) detiene da allora il potere che ha conservato in una sorta di regime monopolistico attenuato dal fatto che i governi hanno avuto una durata media intorno all’anno, altra somiglianza con l’Italia della cosiddetta ”Prima Repubblica”.
Gia a primavera il governo di Aso pareva spacciato, ma a maggio i liberaldemocratici avevano preso un po’ di fiducia grazie alle disavventure dei democratici il cui leader Ichiro Ozawa, da molti visto come il probabile futuro primo ministro, si era dimesso in seguito a uno scandalo scatenato dalla scoperta di finanziamenti illeciti da parte di un’azienda di costruzioni (a marzo il suo segretario era finito in carcere) accolto dall’opinione pubblica con grande sdegno.
Negli ultimi mesi le fortune dei liberaldemocratici sono nuovamente precipitate a causa di una serie di gaffe: davanti alle notizie sempre più preoccupanti provenienti dal fronte economico, Aso non ha trovato di meglio che prendersela con i pensionati, «vecchietti che mangiano e bevono e non fanno nulla»; il ministro della Salute Hakuo Yanagisawa ha scelto come bersaglio le donne, «macchine per fare figli»; l’ex premier Yoshiro Mori ha puntato sugli Stati Uniti, «un Paese di gangster».
Secondo Gian Carlo Calza, autore tra l’altro di Stile Giappone (Einaudi), è tipico dei giapponesi spararle grosse quando si sentono perduti: «Ha a che fare con la loro formazione culturale che ruota attorno a formalismi ed eleganze, il cui scopo è rassicurare se stessi e gli altri con gesti ripetuti e sempre uguali. In sostanza: preferiscono fare una gaffe piuttosto che intraprendere una strada incognita. Sbattere contro un muro li salva dalla necessità di confrontarsi su un terreno che vedono come minato».
Annunciate le elezioni anticipate, il Partito democratico ha lanciato un ”contratto con gli elettori”, ovvero un ambizioso programma di riforme che comprende sussidi alle famiglie numerose, diminuzione della fiscalità per le piccole imprese, abolizione dei pedaggi stradali, guerra alla burocrazia e alle lobby che da decenni contendono il potere al governo. Secondo gli esperti il pacchetto costerebbe tra il 3 e il 5% del pil. Anche quelli che alla fine gli daranno il voto paiono però poco convinti. Il popolare anchorman Shoichiro Tawara ha commentato: «Siamo messi talmente male che voteremo tutti per il Pd, senza renderci conto che oltre qualche promessa demagogica, non faremo altro che passare da una dinastia all’altra».
Secondo molti giapponesi di ogni idea politica, la vittoria del Partito democratico, che già dal luglio 2007 controlla la Camera Alta (l’equivalente del nostro Senato), cambierebbe ben poco: nato nel 1998 dall’unione di transfughi liberaldemocratici (tra cui Hatoyama) ed esponenti socialisti, un insieme eterogeneo di interessi che potrebbero diventare conflittuali una volta al governo, è composto al 70% da parlamentari che provengono dalla ”balena gialla”.
Nelle ultime settimane autorevoli osservatori internazionali come il settimanale britannico ”The Economist” hanno diffuso l’idea che per quanto giustificati possano essere i dubbi sull’effettiva leadership democratica (il sospetto è che comandi ancora Ozawa, «brillante, imprevedibile e cintura nera nell’oscura arte della manipolazione») e sulla capacità di portare avanti le riforme promesse (già nel 1993 furono sabotate dalla potentissima burocrazia, identica sorte toccò a Koizumi), una vittoria del Ppj sarebbe comunque augurabile perché spingerebbe il Paese verso un’inedita alternanza che nel lungo periodo avrebbe comunque effetti positivi.
A luglio i liberaldemocratici parevano rassegnati. Aso aveva invitato i colleghi di partito a vivere l’eventuale sconfitta in modo aggraziato, «come una carpa catturata che non ha sussulti nemmeno quando il coltello la sfiora». Gli ultimi dati economici hanno però mostrato che da aprile a giugno il pil è cresciuto dello 0,9% portando il Paese temporaneamente fuori dalla peggior recessione del dopoguerra. Con un 35% di indecisi, i sostenitori del Jiminto potrebbero ancora compiere quello che poche settimane fa appariva un miracolo lasciando la parte della carpa ai rivali del Minshuto.