Antonietta Demurtas, Il Sole-24 Ore 19/8/2009;, 19 agosto 2009
DA CHIQUITA A WAL MART AL GRIDO DI «BOYCOTT!»
Quello di Whole Foods sta facendo molto rumore, ma non è certo l’unico tra i casi di boicottaggio di prodotti e aziende in quella che per gli americani è la più ricorrente arma di ostracismo nei confronti dello strapotere industriale. Il più famoso e duraturo episodio ha come bersaglio WalMart, la più grande catena di retail al mondo. Il comportamento antisindacale del gruppo, dal mancato pagamento dei contributi a vere e proprie vessazioni contro i dipendenti ( alcuni hanno denunciato l’impossibilità di andare in bagno fuori dalle pause consentite), ha scatenato una campagna contro il colosso della grande distribuzione. E ancora oggi per molti americani non mettere piede in uno dei suoi punti vendita è un motivo d’onore.
Ma la parola boicottaggio risuona quasi quotidianamente nei discorsi dei politici e nei siti dove gruppi di cittadini sfogano la loro indignazione. Un classico alla Wal-Mart è la perenne campagna contro Microsoft, sentina di tutti i mali per colpa della sua logica fisiologicamente monopolista. L’ultima accusa arriva dal sito freedomware. us: evitate di comprare i prodotti dell’azienda di Seattle, perché l’avido Bill Gates ( non importa se adesso operativamente non c’è più lui alla guida) appalta lavoro in giro per il mondo togliendolo così agli americani.
Ma di recente anche un altro brand storico, ora non certo all’apice del suo fulgore,General Motors, è stato oggetto di furiose campagne per dissuadere dal comprare le sue automobili: ogni dollaro dato all’azienda di Detroit, salvata dallo stato, equivaleva a un oltraggio alla libera impresa.
Anche la birra non è uscita indenne dalla furia dei consumatori. Quando il marchio più americano, Budweiser, è finito in mano belga, si è creato un comitato di appassionati della bevanda che invitava a smettere di berla. In compenso offriva anche una lista di 66 marchi di birra che potevano essere tranquillamente comprati perché avevano scelto di mantenere le loro fabbriche negli Stati Uniti.
Bersaglio storico dell’ira dei boicottatori americani è il brand Chiquita: nel 1998, comprare la famosa banana dal bollino blu equivaleva a diventare complici dello sfruttamento minorile nelle piantagioni in Sud America. Fu un’inchiesta giornalistica del Cicinnati Enquirer a smascherare i "disumani e vergognosi" comportamenti della multinazionale.
Insomma, la lotta all’American brand parte dagli stessi americani: nei siti online, nati non solo per criticare le scelte politiche ma anche per contrastare il potere delle multinazionali, è facile trovare un attacco a un’azienda o a un prodotto. Sono delle vere e proprie classifiche quelle dei brand da boicottare basate su una serie di valori etici da rispettare: attenzione all’ambiente, controllo del potere nucleare, rispetto degli animali contro abusi e vivisezione, diritti dei lavoratori, sono solo alcuni dei principi che orientano le scelte dei consumatori americani.
Il boicottaggio va anche all’estero:uno degli ultimi è stato quello lanciato in Medio Oriente contro i prodotti americani e israeliani in segno di protesta contro l’attacco a Gaza da parte dell’esercito di Tel Aviv a fine dicembre 2008. Starbucks, la catena di coffee shop di Seattle, fu uno dei primi obiettivi a essere preso di mira insieme a Nestlé, CocaCola, Johnson & Johnson and Burger King. Starbucks fu costretta a chiudere i suoi negozi per qualche giorno a Beirut a causa delle proteste.