Giovanna Cavalli, Corriere della sera 18/8/2009, 18 agosto 2009
MADE IN ITALY MA L’EUROPA POTREBBE OPPORSI
ROMA – Il marchio è italiano, il prodotto no, ma tanto il consumatore non lo sa. Finora funzionava così. Dal 15 agosto l’etichetta deve dire tutta la verità. A smascherare quel made in Italy che di italiano ha solo il nome, dovrebbe provvedere l’art. 17 della legge sullo sviluppo economico che vieta «l’uso di marchi di aziende italiane su merci non originate nel nostro Paese». Se non compare «l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro reale paese o luogo di produzione o fabbricazione». Comunque deve essere chiaro che si tratta di un articolo importato.
La regola non è retroattiva. Perciò chi ha il magazzino pieno non perderà la merce già etichettata. Purché il produttore autocertifichi che il marchio è stato apposto prima di ferragosto.
Il problema pratico è un altro. La normativa potrebbe essere in contrasto con le direttive comunitarie. Come conferma il viceministro allo Sviluppo economico Adolfo Urso: «Temo si possa incorrere in un’infrazione europea.
Perché la competenza esclusiva in materia è della Ue, un singolo Stato non può decidere un’autonoma politica doganale». La norma approvata Urso la condivide nella sostanza. «Dal 2003 ho fatto mia questa battaglia e spero che la commissione europea provveda entro 6 mesi. Tutti i prodotti che entrano in Europa devono dichiarare con esattezza dove sono stati fabbricati». Così com’è ora, la disposizione introduce una disparità di trattamento tra imprese italiane, obbligate a dichiarare la provenienza della merce, e imprese straniere che vendono in Italia, sollevate dall’incombenza burocratica.
«Faccio parte degli arrabbiati», dichiara Giuseppe Zanotti, scarpe di lusso 100 per 100 italiane, 3 aziende e 5 laboratori tra Cesena e Rimini, 80 milioni di fatturato 2008. «Le regole finora non le ha rispettate nessuno, spero che i controlli funzionino davvero e tutelino noi che facciamo tutto in Italia. La qualità costa e va protetta».
Dice Gianluigi Cimmino, ad di Yamamay, intimo low-cost, che «il consumatore è più furbo di quel che si crede. Noi da sempre indichiamo l’origine del prodotto per evitare equivoci, come fanno i colossi Zara e H&M». La sua Inticom Spa nel 2008 vanta 112 milioni di fatturato. «La crisi ha colpito il finto lusso e premiato le buone idee».