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 2009  agosto 19 Mercoledì calendario

Ramirez Manny

• (Manuel) Santo Domingo (Repubblica Dominicana) 30 maggio 1972. Giocatore di baseball. Coi Boston Red Sox ha vinto le World Series del 2004 (mvp) e 2007. Ha giocato anche con Cleveland Indians, Los Angeles Dodgers, Chicago White Sox. Nel 1999 leader della AL in Rbi, nel 2002 in batting average, nel 2004 in home runs. 12 presenze all’All Star Game (1995, 1998-2008) • «C’è senza esserci. C’è ovunque. Sbagliato? Non interessa più. Un po’ grasso? Non è mai contato. Manny è l’infame che funziona. Una mazza per entrare nella leggenda dalla parte opposta: con una squalifica di 50 giornate per doping, con la certezza che ti sei sparato in vena la pozione magica che l’ha aiutato a crearsi campione. Perché nessuno lo odia? Non lo sa neanche lui, Manuel Ramirez. Non si pone neanche la domanda perché non lo fanno gli altri e quindi perché dovrebbe farlo da solo. Torna e gioca, torna e non prende un fischio, ma una caterva di applausi, di foto, di foglietti sventolanti a caccia di un autografo. [...] Come Ramirez sono stati beccati decine di altri giocatori, a cominciare da Barry Bonds, che pareva una leggenda e che invece s’è scoperto pieno di steroidi e ormoni della crescita e solo Dio sa che cos’altro. Però vedi la differenza? Bonds è stato umiliato, deriso, punito dalla giustizia sportiva e dall’opinione pubblica. Ramirez no. Manny è stato accantonato per un po’, giusto il tempo di centrifugarsi nella lavatrice della vita, poi è tornato più amato di prima. A Los Angeles, nei giorni del funerale di Michael Jackson, c’era solo una cosa che distraeva la gente d’America dalle lacrime per Jacko: il ritorno in campo di Ramirez. Con le sue treccine, col suo sorriso beffardo, col suo fare gradasso. Simpatico, solare, ricco, famoso, forte. Una certezza anche quando commette un errore. “Mannywood”, c’era scritto sui cartelloni pubblicitari lungo Sunset Boulevard. [...] prese una mazza in mano nelle strade di Washington Heights, a Manhattan, dove si era trasferito con la famiglia dalla Repubblica Dominicana. Aveva 13 anni. È cresciuto lì, Manuel, diventato Manny per comodità e per abbreviazione inglesizzata. Lì, oltre la 166ma, dove ci si sente in periferia anche se si è a 50 isolati dal centro del mondo. Lì, dove i dominicani hanno creato i caraibi di New York. Lì, dove si annusa il Bronx e quindi il baseball degli Yankees. Ramirez è cresciuto col mito di quei giocatori con la divisa gessata e il cappellino più famoso della terra. Ha abbattuto chiunque, in città. Tre volte selezionato nell’all star dei licei newyorkesi, una volta nominato miglior giocatore in assoluto di tutta la città: 1991, cioè lo stesso anno in cui i Cleveland Indians lo scelsero direttamente dal liceo per allevarlo nelle serie minori e prepararlo alla Major League. Due anni dopo il debutto, le prime partite, i primi punti, la prima fama: guadagnava il minimo sindacale per un giocatore di massima serie, poco più di centomila dollari all’anno. È in quegli anni che ha cominciato a diventare Manny: Manny being Manny è la frase che gli hanno affibbiato in quel periodo e che s’è trascinato per tutta la carriera [...] c’è tutto lui, qui dentro: il suo allenatore degli Indians la creò per identificare brevemente i Manny Moments, cioè gli attimi in cui Ramirez faceva qualcosa di unico e irripetibile: fosse un fuori campo, oppure un errore banalissimo. Manny being Manny vale per tutto: per la classe e per la distrazione, per le battute e per gli scatti d’ira. Ce ne sono in ogni stagione, in ogni partita, in ogni inning. È la specialità di Manuel, questa. L’imprevedibilità, la follia. Assomiglia a un calciatore perché si prende pause che in uno sport di concentrazione come il baseball sono assurde. È l’unico: mischia tecnica disumana e errori umanissimi. Piace per questo, Ramirez, perché è sbagliato ma anche giusto, uno di loro e in fondo uno di noi. Così gli capita di inventarsi una scusa per non andare agli allenamenti oppure per non andare alla Casa Bianca. Accadde nel 2007 e Bush ci scherzò su: “Scommetto che a Manny è morta la nonna per la terza volta”. Accade tutto con Manuel, per esempio litiga in diretta televisiva con l’allenatore, o con un compagno o con un avversario: è così che è finita la sua avventura a Boston, cioè dove è diventato grande, anzi immenso, dove sarà ricordato non per questo ma per essere stato il trascinatore dei Red Sox nel 2004, la stagione nella quale hanno vinto la Major League dopo una vita. Manny è l’uomo che sfida le maledizioni. Quella dei bari odiati in America e quella delle calzette rosse del Massachusetts. Manny neanche lo sapeva, quando è arrivato a Boston. L’ha capito vivendoci. Ha scoperto che c’era un anno nella vita di questa città che era rimasto l’ultimo felice: 1918. Ha scoperto che uno dei suoi idoli d’infanzia, anzi uno degli idoli perenni dell’America del baseball c’entrava qualcosa. Era Babe Ruth, cioè George Herman Ruth, detto il Bambino. E dentro c’era pure la sua città, New York, e i suoi sogni da bambino in divisa gessata col cappellino più famoso del mondo. Quello degli Yankees. Manny ha letto tutta la storia oppure gliel’hanno raccontata: Babe aveva dato a Boston il titolo del 1918, poi due anni dopo, il proprietario dei Red Sox, Harry Frazee, decise di cederlo agli odiati Yankees per 100.000 dollari. La gente non voleva che ci andasse e anche Ruth non voleva andarci. Così prima di lasciare Boston si vendicò del suo presidente lanciando un pianoforte in fondo al lago, vicino a casa, a Sudbury, e pronunciò il leggendario anatema: “Boston non vincerà mai più”. E Boston non ha vinto per ottantasei anni, convinta davvero che ci fosse una maledizione, un sortilegio, una fattura. Maledetto Babe e maledetti gli Yankees. Manny credeva che la rivalità sportiva fosse soltanto un bel modo di ravvivare l’eterno antagonismo tra Boston e New York. Quando ha capito che era tutta un’altra storia ha cominciato a mettere in fila un sacco di cose. Ha capito perché c’era una maglietta che i tifosi più anziani dei Red Sox indossavano a ogni partita: “Just one, before I die”, “Almeno uno, prima che muoia”. Un titolo di grazia. Un titolo per rompere l’incantesimo. Forse non era necessario quello, ma altro. Manny e un suo colpo, Manny e un suo “moment”. Una battuta per spezzare la iattura insieme a due denti di uno spettatore: 31 agosto 2004, a Fenway Park, lo stadio dei Red Sox. Lancio dei Los Angeles Angels of Anaheim, fuoricampo di Manny. Punto e caos: infermieri sulle tribune. Ramirez aveva colpito uno spettatore in faccia: era Lee Gavin, sedicenne invasato pseudoultrà di Boston, infatuato di Ramirez e di Ortiz e di chiunque altro indossi quella maglia maledetta. La palla del suo campione gli fece volare due denti e lui invece di arrabbiarsi la prese e la mise in tasca tutta insanguinata. Il trofeo personale e un po’ masochista e pure un trofeo collettivo. Perché Lee Gavin con la famiglia era e forse è ancora il proprietario della casa di Sudbury che fu di Babe Ruth. La villa del pianoforte e quindi dell’anatema. Non era una casualità, allora. Due denti in meno e un titolo in più, certo. Lo credevano i Gavin, i tifosi dei Red Sox, i giornali e forse anche Manny, inconsapevole artefice della fine della scalogna bostoniana. Da allora, la stagione 2004, fu incredibile: il laghetto di Sudbury fu stato preso d’assalto da sommozzatori della domenica, certi che se avessero ripescato il pianoforte, avrebbero definitivamente eliminato la malasorte dalle maglie della squadra. Le tv locali e i giornali raccontavano di eleganti uomini d’affari che ogni settimana sfilato con puntualità sulla tomba di Babe Ruth, depositando coppette di gelato (la passione non solo infantile del campione), come offerte sacrificali nella speranza di convincere il fantasma a smetterla con quella sciocca frase che aveva portato tanta sfiga alla loro squadra. Poi tutto il resto: business e improbabile creduloneria, affari e superstizione post-medievale, racchiuso in un solo e unico esempio, quello della Brigham, produttrice di gelato, creò nel 2004 il gusto “Reverse the Curse”, “Inverti la maledizione”, vendendone a fiotti persino nei mesi autunnali, quando a Boston le temperature possono già raggiungere quasi lo zero. Manny a guardare, forse esterrefatto ma gongolante al pensiero che tutto questo dipendesse da un suo colpo. Manny a giocare, trascinando Boston prima ai play-off, poi alla incredibile vittoria contro gli Yankees. Loro, santo cielo. New York vinceva 3-0 la serie. Vinceva anche la quarta partita. A tre soli lanci dall’eliminazione, l’inversione. Revers the curse, appunto. Vittoria di Boston, 3-1. Poi altre tre partite perfette: 4-3. Manny fuoricampo. Manny fuoricampo. Manny fuoricampo. Mai visto nel baseball. E siccome ci voleva una spiegazione altra, allora eccola: “Il fantasma di Babe ora ha puntato il dito verso gli Yankees, infastidito dai 252 milioni di dollari pagati ad Alex Rodriguez, giocatore piuttosto normale per quella cifra”. Alex, cioè il migliore amico di Manny. Così è questa storia di incroci pazzeschi e soprannaturali. Avevano cominciato insieme, a Washington Heights. Amici da allora e per il resto della vita, divisi dalla rivalità e da un milione di dollari che ne fa rispettivamente il giocatore più pagato della Major League (Rodriguez con 26 milioni) e il secondo più pagato (Ramirez con 25 milioni). Visto che non ci si poteva far mancare nulla, ecco l’ultimo capitolo della folle stagione 2004: nell’ultima partita il trionfatore fu Johnny Damon, il numero 18 dei Red Sox. Al suo fianco c’era Gabe Kepler, numero 19: 1918. L’anno di Babe. Numeri e coincidenze che significano tanto o poco a seconda del momento. Zero per Manny che di quella vittoria storica fu il vero protagonista. Zero anche per chi di baseball capisce. Perché Ramirez non ha vinto da solo, ma quasi. Perché poi tre anni dopo, nel 2007, l’ha fatto di nuovo, senza più aiuti del destino o del fato o di qualche fantasma. L’hanno preso i Dodgers caricandolo di dollari: 25 milioni a stagione. L’hanno voluto perché con lui si vince. Perché è forte, fortissimo, forse aiutato da qualche farmaco, ma secondo tanti non abbastanza da essere un aiuto decisivo. [...]» (Beppe Di Corrado, “Il Foglio” 19/8/2009).