Guido Rampoldi, la Repubblica, 17/8/09, 17 agosto 2009
L’ULTIMA SFIDA DEI MULLAH
Chi crede che le immagini siano la scorciatoia alla verità ha buoni motivi per convincersi che le elezioni afghane abbiano già un vincitore: i Taliban. A due giorni dal voto, la guerriglia afgana è stabilmente accampata nei nostri telegiornali con i suoi razzi e le sue stragi, ubiqua, onnipotente, invincibile: o almeno così appare.
In ogni caso, paradossalmente più abile degli occidentali nell´uso dei media. Forse consigliati, comunque astuti, i mullah hanno capito che possono vincere la guerra soltanto in casa del nemico, lì dove settori crescenti di opinione pubblica si domandano perché i nostri soldati debbano morire per Kabul. Quanto più quei guerrieri ci sorprendono con i loro attacchi spettacolari, tanto più abbiamo l´impressione che la nostra presenza sia insensata, la mischia irrisolvibile; e l´Afghanistan «un Paese remoto di cui sappiamo nulla». Ma questa è appunto la definizione che Chamberlain diede della Cecoslovacchia dopo averla consegnata alle armate di Hitler. Qui non vogliamo proporre una grossolana similitudine tra Taliban e nazisti, ma soltanto suggerire che talvolta la rinuncia a conoscere e a capire può avere un prezzo altissimo.
Chi ritiene che la verità meriti uno sforzo di meningi, può trovare ragioni per dubitare che la guerra vada esattamente come appare dalle immagini e dai titoli. possibile che nelle prossime ore i Taliban mettano a segno altri attentati e convincano molti afgani a disertare le urne, il 20 agosto. Ma al momento l´esercito e la polizia ritengono di poter garantire il voto in 6.600 seggi. vero che molti di quei seggi sono stati accorpati, però nel 2005 erano meno, 6.200, e alla loro sicurezza provvedeva la Nato. Certamente pecca di ottimismo il ministro della Difesa afgano, Wardak, quando propone ai Taliban una tregua per l´intera giornata elettorale. Ma come il ministro ieri ha ricordato al rappresentante dell´Unione europea a Kabul, Sequi, un anno fa, quando il governo proclamò la "giornata della pace", quel 21 settembre in gran parte del Paese non si sparò un colpo. Si può dare per scontato che, giovedì prossimo, qua e là i Taliban assassineranno elettori ed elettrici, in esecuzione del loro proclama che bolla come "anti-islamica" la democrazia parlamentare. Ma nelle circoscrizioni dove la guerriglia è stata convinta a fermare le operazioni, quel cessate-il-fuoco regge.
Nessuno dubita che vi saranno una quantità di brogli e imbrogli, soprattutto durante il trasferimento delle schede elettorali; che in villaggi dove nessuno ha mai visto una penna, tantomeno una scheda, si voterà secondo le indicazioni del mullah o del consiglio degli anziani; che ci saranno contestazioni veementi e innumerevoli riconteggi (non per nulla la proclamazione dei risultati è prevista un mese dopo il voto). Ma in un Paese neo-feudale, raso al suolo da un trentennio di guerre, e da alcuni secoli privo di un´autorità centrale in grado di imporre un principio di statualità alle satrapie locali, queste elezioni, le prime gestite dagli stessi afgani, hanno prodotto eventi davvero straordinari. L´aggettivo col quale la diplomazia occidentale promuove la campagna elettorale, "vibrante", non è retorico. La politica è entrata, o rientrata, in Afghanistan. I dibattiti in tv e alla radio sono stati professionali e hanno appassionato almeno una parte della popolazione, soprattutto giovani (due afgani su tre hanno meno di 28 anni). E quella parte non potrà essere convinta a tornare sotto la sferza dei mullah.
Tutto questo non può far dimenticare quanto stolta sia stata sette anni fa la decisione occidentale di forzare un Paese disastrato dentro la camicia di forza di una democrazia parlamentare, subito e senza una vera transizione. Che vinca Karzai, com´è probabile, oppure il suo rivale Abdullah, in risalita nei sondaggi, il presidente si porterà a palazzo uno stuolo di comandanti di milizie etniche, uomini di mano che sarebbe saggio tenere lontano dalle istituzioni e dalle casse dello Stato. E ciascuno di quei samurai avrà dietro le spalle uno spionaggio straniero - russo, iraniano, indiano, arabo - e magari anche una rete di narcotraffico. Eppure una oculata regia occidentale riuscirebbe ad attenuare questa deriva. Karzai, che avrebbe promesso le 25 poltrone di ministro a 125 alleati, potrebbe dirottare i più laidi tra costoro nell´inutile Senato, dove non farebbero molto danno; e costruire un esecutivo dignitoso con Abdullah e con altri partner politici. Infine, quell´affollarsi di spionaggi non è necessariamente negativo, se implica un coinvolgimento di altri Paesi nella stabilizzazione dell´Afghanistan.
Lontano dalle cineprese, stanno accadendo cose davvero interessanti. Entrata di recente in Afghanistan con massicci investimenti nelle miniere di rame, la Cina potrebbe concordare con la Nato le prime forme di cooperazione (cominciando dallo sminamento di talune aree). Il Pakistan sta realizzando che i "suoi" Taliban sono una mina vagante, o uno strumento in mani nemiche, e sta cercando di farli implodere. L´India comincia ad essere a corto di alibi per rifiutare un compromesso sul Kashmir. Resta l´incognita iraniana. Però potremmo scoprire che Afghanistan non vuol dire soltanto grandiosi rischi, ma anche grandiose opportunità. Non ultimo per l´Occidente, se avesse ancora convinzione in se stesso e governanti che sappiano costruire l´opinione pubblica invece di assecondarla mestamente.