Marta Dassù, Corriere della Sera, 15/8/09, 17 agosto 2009
PIU’ MEZZI E MENNO ILLUSIONI. LA NUOVA «GUERRA GIUSTA» CHE SERVIRA’ A OBAMA
Da quattro settimane «In the Graveyard of Empires» è uno dei saggi più venduti nelle librerie di Washington. Il libro di Seth Jones, analista della Rand Corporation, non ispira certo ottimismo: l’Afghanistan ha inflitto pesanti batoste agli imperi – mettendo alla prova Alessandro Magno, massacrando i britannici, umiliando i sovietici. La stessa sorte, allude il titolo, potrebbe toccare all’impero americano ereditato da Barack Obama.
L’angoscia per la trappola afghana è palpabile, nell’amministrazione democratica. La politica è concentrata sulla riforma sanitaria e le sue pene. Ma la «guerra giusta» di Obama rende più difficile anche il fronte interno: perché è una guerra che comincia a costare parecchio, proprio quando l’America si trova a fare i conti con un deficit di bilancio in rapida espansione; perché è una guerra con perdite in aumento; e perché, soprattutto, è una guerra che nessuno sa bene come vincere, ammesso che sia ancora possibile. Sono le ragioni che giustificano i primi paragoni fra Barack Obama e Lyndon Johnson, altro presidente democratico alle prese con una guerra quasi persa (il Vietnam) e con una sfida principale di politica interna (la Great Society).
Se la scuola della «tomba degli imperi » torna a farsi sentire, nell’estate di Washington, la scuola del «successo parziale» difende ancora le possibilità di riuscita in Afghanistan. A due condizioni però, giudicate entrambe essenziali: l’aumento temporaneo della presenza militare, come chiede il generale nominato da Obama, McCrystal (secondo cui i 21.000 soldati aggiuntivi già disposti da Washington non basteranno, di fronte a un nemico più aggressivo di un tempo); la riduzione parallela degli obiettivi, abbandonando le ambizioni di nation-building. Più mezzi e meno illusioni.
Obama ha già scelto questa linea, quando ha spiegato che l’interesse nazionale degli Stati Uniti non è di costruire una democrazia jeffersoniana a cavallo dell’Hindukush ma di colpire Al Qaeda e i suoi alleati fra i talebani, in Afghanistan e nelle aree tribali del Pakistan. La condizione è di raggiungere una stabilità minima, con l’aiuto esterno della Russia e l’appoggio tacito dell’Iran. Una condizione che in prospettiva consenta alle forze afghane, addestrate dagli Stati Uniti e dalla Nato, di occuparsi della sicurezza interna; e a Washington di concentrare gli sforzi sulle gerarchie terroriste, bloccando il contagio dal caos afghano al fronte pakistano.
Mentre Obama ridefinisce in questi termini la «guerra giusta», l’opinione pubblica americana dà i primi segni di stanchezza. Per il momento, e a differenza degli europei, la maggioranza degli americani continua a ritenere che valga la pena di combattere, in Afghanistan. Perché i costi di un fallimento (il ritiro) sarebbero superiori. Ma è un appoggio che durerà ancora poco; fino a quando, cioè, quella stessa maggioranza penserà che l’America stia vincendo o possa vincere in fretta.
L’America può ancora vincere? E cosa significa vittoria? I precedenti delle guerre di contro-insurrezione, fino all’Iraq, dicono che il livello di forze necessario dovrebbe essere notevolmente più alto di quello attualmente spiegato in Afghanistan (perlomeno attorno ai 300.000 uomini, fra forze americane, internazionali e afghane); che i tempi sono in genere lunghi (un decennio o più); che le perdite sono alte (50 uomini al mese, nella fase di massima violenza, utilizzando il precedente dell’Iraq) e le percentuali di successo basse. Parametri che spiegano in teoria l’importanza che avrebbero nuove forze Nato (nella pratica resteranno limitate). E che contrastano, tutti, con i limiti psicologici dovuti all’impazienza della gente o con i limiti temporali dell’agenda domestica americana: dalle elezioni di mid-term nell’autunno del 2010 alle successive elezioni presidenziali. In tempi rapidi, insomma, Obama dovrà dichiarare che gli afghani sono più o meno in grado di gestire la propria sicurezza. Per potere annunciare un «successo parziale», la sola vittoria possibile. E insieme un primo disimpegno americano.
Tutto questo significa che gli Stati Uniti non si preparano a condurre una lunga e costosa guerra di contro- insurrezione. indicativo, in questo senso, che un rapporto recente alla Commissione esteri del Senato americano critichi la decisione della Casa Bianca di estendere le uccisioni mirate a una parte dei signori della droga, perché – questo l’argomento principale usato – è una decisione che torna ad alzare la posta, rispetto a una logica di intervento che era stata ridimensionata.
Se i vincoli sono questi, la Casa Bianca tenterà piuttosto – adattando all’Afghanistan la strategia irachena di David Petraeus – di combinare all’aumento temporaneo delle forze militari accordi politici per la pacificazione interna. la linea promossa da Karzai per le elezioni del 20 agosto: l’apertura di un suo futuro governo ai talebani disposti a collaborare, abbandonando la violenza. Il problema è che la debolezza di Karzai, per quanto vincitore annunciato alle urne, e la frammentazione estrema del Paese, rendono accordi del genere ardui, più difficili di quanto sia stato in Iraq.
La scommessa di Obama è che una escalation oggi possa modificare i rapporti di forza, permettendo all’America una via di uscita dignitosa domani. Sembra una scommessa alla Lindon Johnson, appunto. Ma può darsi che l’Afghanistan non sia il Vietnam. E che gli americani, dopo tutto, riescano a evitare l’umiliazione sovietica di venti anni fa.