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 2009  agosto 17 Lunedì calendario

PIU’ MEZZI E MENNO ILLUSIONI. LA NUOVA «GUERRA GIUSTA» CHE SERVIRA’ A OBAMA


Da quattro settimane «In the Gra­veyard of Empires» è uno dei saggi più venduti nelle librerie di Washin­gton. Il libro di Seth Jones, analista della Rand Corporation, non ispira certo ottimismo: l’Afghanistan ha in­flitto pesanti batoste agli imperi – mettendo alla prova Alessandro Ma­gno, massacrando i britannici, umi­liando i sovietici. La stessa sorte, al­lude il titolo, potrebbe toccare all’im­pero americano ereditato da Barack Obama.

L’angoscia per la trappola afgha­na è palpabile, nell’amministrazione democratica. La politica è concentra­ta sulla riforma sanitaria e le sue pe­ne. Ma la «guerra giusta» di Obama rende più difficile anche il fronte in­terno: perché è una guerra che co­mincia a costare parecchio, proprio quando l’America si trova a fare i conti con un deficit di bilancio in ra­pida espansione; perché è una guer­ra con perdite in aumento; e perché, soprattutto, è una guerra che nessu­no sa bene come vincere, ammesso che sia ancora possibile. Sono le ra­gioni che giustificano i primi parago­ni fra Barack Obama e Lyndon John­son, altro presidente democratico al­le prese con una guerra quasi persa (il Vietnam) e con una sfida principa­le di politica interna (la Great So­ciety).

Se la scuola della «tomba degli im­peri » torna a farsi sentire, nell’estate di Washington, la scuola del «succes­so parziale» difende ancora le possi­bilità di riuscita in Afghanistan. A due condizioni però, giudicate en­trambe essenziali: l’aumento tempo­raneo della presenza militare, come chiede il generale nominato da Oba­ma, McCrystal (secondo cui i 21.000 soldati aggiuntivi già disposti da Washington non basteranno, di fronte a un nemico più aggressivo di un tempo); la riduzione parallela degli obiettivi, abbandonando le am­bizioni di nation-building. Più mezzi e meno illusioni.

Obama ha già scelto que­sta linea, quando ha spiegato che l’interesse nazionale degli Stati Uniti non è di costruire una democrazia jeffersoniana a cavallo dell’Hindukush ma di colpire Al Qaeda e i suoi alleati fra i talebani, in Afghanistan e nelle aree tribali del Pakistan. La condizione è di raggiungere una stabilità minima, con l’aiuto esterno della Russia e l’appoggio tacito del­l’Iran. Una condizione che in pro­spettiva consenta alle forze afghane, addestrate dagli Stati Uniti e dalla Nato, di occuparsi della sicurezza in­terna; e a Washington di concentra­re gli sforzi sulle gerarchie terrori­ste, bloccando il contagio dal caos af­ghano al fronte pakistano.

Mentre Obama ridefinisce in que­sti termini la «guerra giusta», l’opi­nione pubblica americana dà i primi segni di stanchezza. Per il momento, e a differenza degli europei, la mag­gioranza degli americani continua a ritenere che valga la pena di combat­tere, in Afghanistan. Perché i costi di un fallimento (il ritiro) sarebbero superiori. Ma è un appoggio che du­rerà ancora poco; fino a quando, cioè, quella stessa maggioranza pen­serà che l’America stia vincendo o possa vincere in fretta.

L’America può ancora vincere? E cosa significa vittoria? I precedenti delle guerre di contro-insurrezione, fino all’Iraq, dicono che il livello di forze necessario dovrebbe essere no­tevolmente più alto di quello attual­mente spiegato in Afghanistan (per­lomeno attorno ai 300.000 uomini, fra forze americane, internazionali e afghane); che i tempi sono in genere lunghi (un decennio o più); che le perdite sono alte (50 uomini al me­se, nella fase di massima violenza, utilizzando il precedente dell’Iraq) e le percentuali di successo basse. Pa­rametri che spiegano in teoria l’im­portanza che avrebbero nuove forze Nato (nella pratica resteranno limita­te). E che contrastano, tutti, con i li­miti psicologici dovuti all’impazien­za della gente o con i limiti tempora­li dell’agenda domestica americana: dalle elezioni di mid-term nell’au­tunno del 2010 alle successive elezio­ni presidenziali. In tempi rapidi, in­somma, Obama dovrà dichiarare che gli afghani sono più o meno in grado di gestire la propria sicurezza. Per potere annunciare un «successo parziale», la sola vittoria possibile. E insieme un primo disimpegno ame­ricano.

Tutto questo significa che gli Stati Uniti non si preparano a condurre una lunga e costosa guerra di con­tro- insurrezione. indicativo, in questo senso, che un rapporto recen­te alla Commissione esteri del Sena­to americano critichi la decisione della Casa Bianca di estendere le uc­cisioni mirate a una parte dei signo­ri della droga, perché – questo l’ar­gomento principale usato – è una decisione che torna ad alzare la po­sta, rispetto a una logica di interven­to che era stata ridimensionata.

Se i vincoli sono questi, la Casa Bianca tenterà piuttosto – adattan­do all’Afghanistan la strategia irache­na di David Petraeus – di combina­re all’aumento temporaneo delle for­ze militari accordi politici per la paci­ficazione interna. la linea promos­sa da Karzai per le elezioni del 20 agosto: l’apertura di un suo futuro governo ai talebani disposti a colla­borare, abbandonando la violenza. Il problema è che la debolezza di Kar­zai, per quanto vincitore annunciato alle urne, e la frammentazione estre­ma del Paese, rendono accordi del genere ardui, più difficili di quanto sia stato in Iraq.

La scommessa di Obama è che una escalation oggi possa modifica­re i rapporti di forza, permettendo al­l’America una via di uscita dignitosa domani. Sembra una scommessa al­la Lindon Johnson, appunto. Ma può darsi che l’Afghanistan non sia il Vietnam. E che gli americani, do­po tutto, riescano a evitare l’umilia­zione sovietica di venti anni fa.