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 2009  agosto 17 Lunedì calendario

«CI SALVERA’ UN MILIONE DI IMPERENDITORI»


Professor De Rita, a Ferragosto del 2007 lei previde sul «Corriere» la caduta di Pro­di...

«Bé, quello non era difficile...».

Ma anche il logoramento di Veltroni, il ri­torno di Berlusconi, e le difficoltà che avreb­be incontrato. Ora cosa vede per l’autunno? Arriva la ripresa? O arriva la crisi?

«Se ho un merito, è guardare lontano. E cre­do che quest’autunno per il futuro dell’Italia sarà decisivo. Una svolta. Ci giochiamo tutto».

 vero quanto sostiene il governo, che l’Italia sinora ha sentito la crisi meno degli altri?

«Sì. Grazie a due buone cose che il governo ha fatto: garantire il sistema bancario e gli am­mortizzatori sociali. E grazie ad alcuni caratte­ri del popolo italiano, di solito additati come vizi, che si sono rivelati strumenti per resiste­re » .

Quali?

«Il pallino del mattone: avere l’85% di pro­prietari di casa e un patrimonio immobiliare pari a 8 volte il Pil – contro il 3 degli Usa e il 5 della media europea – significa non vedere senzatetto accampati in strada. Il pallino del ri­sparmio; per cui non si vive a debito e non si finisce in fila alla mensa dei poveri quando si esaurisce la carta di credito. La diffidenza per la finanza e il predominio dell’impresa familia­re manifatturiera. Il ritorno della banca-spor­telli, della banca di comunità, come riconosce Tremonti rivalutando il credito cooperativo. Il gran numero di statali, che ricevono uno sti­pendio pubblico e in crescita, contro tariffe e prezzi bloccati. La frammentazione in ottomi­la campanili: la crisi non è arrivata come un meteorite che ha scavato un buco enorme; si è spezzettata lungo un paese territorializzato. Il microwelfare, sintetizzato dalla splendida sto­ria che abbiamo visto sul Corriere del novan­tenne abbracciato alla badante di trent’anni».

Per cui ne siamo fuori?

«No. Grazie a tutto questo abbiamo passato l’inverno. Ora serve qualcosa di più e di diver­so. Invece sento proporre soluzioni antiche. Quella tipica della sinistra: le riforme».

Cui lei non crede?

«Non più. In 54 anni passati a leggere la so­cietà italiana, ho sentito troppe volte che la so­luzione sarebbe venuta dalla riforma del lavo­ro, della sanità, della previdenza, e ovviamen­te dalla riforma della scuola, che non ci faccia­mo mai mancare. Tempo sprecato. Se un meri­dionale legge che verrà la Cassa del Mezzogior­no, emigra al Nord. Se dico a uno dei miei otto figli che i suoi problemi saranno risolti dalla riforma dell’università, lui va a studiare in America. Quando sento parlare di riforma del welfare, mi viene da assumere una badante».

Magari la stessa della storia del Corrie­re...

«Il punto è che il bisogno individuale non diventa più bisogno collettivo, impegno socia­le, intervento pubblico, e quindi riforma».

E l’altra soluzione antica?

«Il fai-da-te berlusconiano. La libertà e la necessità di essere se stessi. Che però non na­sce con lui: è un ciclo lungo, che secondo me risale a don Milani e all’obiezione di coscien­za, prosegue con divorzio e aborto, ora forse porterà all’eutanasia. Ma è un ciclo che si sta esaurendo, e tra quattro o cinque anni finirà».

Cosa servirebbe invece?

«Uno scatto. Un clic collettivo. Il passaggio dall’adattamento all’arrancamento. L’adatta­mento è una tipica risorsa italiana. Siamo una società adattativa: femmina, non maschia; quotidiana, non eroica. Quando ho coniato for­mule critiche, come la mucillagine, ho avuto grande successo; ma quando dico che si deve andare oltre l’adattamento, non mi ascolta nes­suno. Eppure è tempo di passare semmai all’ar­rancamento, che non è una parola negativa, anzi; indica lo sforzo di innovazione, la sfida dell’imprenditore».

Saremo capaci di arrancare?

«Ho l’impressione che gran parte di noi, constatato che le banche sono solide e il siste­ma manifatturiero è ancora lì, penserà che ba­sti far passare la nottata, vale a dire un altro inverno. Ma una minoranza vitale capirà che l’adattamento non basta. E’ quel milione di im­prenditori, cui è affidata la nostra speranza. Quelli che arrancano, non più per difendersi, ma per riconquistare posizioni».

Ci salveranno le piccole imprese?

«Se sapranno superare due difficoltà. Chi ha fatto la scelta del lusso patisce il fatto che oggi in America e in Germania di ricchi ce ne sono meno. E il Nord-Est, che lavora molto per l’industria dell’auto e degli elettrodomesti­ci, patisce la crisi altrui».

Berlusconi finirà la legislatura?

«Il berlusconismo si sta sfarinando. E i tem­pi del suo ciclo personale potrebbero essere più rapidi del ciclo storico che ha impersonifi­cato: il faso-tuto-mi, l’autonomia e il primato della persona anche sul piano morale e com­portamentale. Però Berlusconi non è finito: altrimenti, con il suo genio della fiction, sarebbe andato a elezioni anticipate, o sarebbe andato a curarsi non una settimana ma sei mesi, e non in Sardegna ma ai Caraibi. Uno come lui non si fa abbattere».

Quale sarà il passaggio decisivo?

«Le regionali dell’anno prossimo. Se il cen­trodestra percepirà che la parola Berlusconi non è più un valore aggiunto, si porrà il pro­blema di come arrivare al 2013. Ma lo sfarina­mento è tutto interno alla maggioranza. Il Pd non tocca palla».

Il futuro è delle Leghe, anche al Sud?

«I partiti che diventano soggetti di doman­da, sempre in attesa di soldi da Roma, si con­dannano all’impotenza. Preferisco Galan, che si inventa ”Forza Veneto” e dice che a Roma non andrà mai».

Franceschini o Bersani?

«Non ha importanza. L’importante per un leader politico è trovare il ciclo su cui montare. Come De Gasperi. C’è una bella pagina di Ossicini, che viene invitato da Spataro al com­pleanno della figlia e vi trova De Gasperi che gli dice: ”Vieni con noi, stiamo preparando qualcosa di nuovo per quando Mussolini ca­drà”. Ma la cosa più bella è guardare la data: l’inverno tra il ”38 e il ”39. Il Duce trionfava, e un vecchio emarginato, un bibliotecario vatica­no, preparava il dopo».

Il suo paragone tra i leader attuali e De Ga­speri è spietato.

«Ma anche Fanfani, nel suo piccolo, ebbe il suo ciclo».

E Craxi?

«Sì, anche lui. Mi mandò a chiamare nel 1978, in pieno compromesso storico. Io avevo scritto pagine sul caso Moro di cui andavo molto fiero, e pensavo volesse parlarmi di quelle. Mi chiese invece di piccola impresa, lo­calismo, sommerso: ”Lei è sicuro che questa cosa funziona? Perché, se funziona, io ci mon­to su la mia onda lunga”. Questo fa la politica. Berlusconi può essere antipatico, può essere accusato delle più nere nefandezze, ma ha co­struito la sua onda lunga. Il problema del Pd non è fronteggiare Berlusconi; è costruire il dopo. Invece stanno passando l’estate a parla­re di sinistra riformista».