Alberto Sinigaglia, La Stampa, 15/8/09, 17 agosto 2009
A SINGAPORE CON CHIARA SOTTO LE STELLE DEL JAZZ
«Cosa leggerai?/Con che libro affascini il tuo cuore?/E se ti perderai/ nel labirinto di un amaro autore?», canta Paolo Conte in Happy feet. In Brillantina bengalese evoca Emily Brontë: «Infuriate chiome, tempestose cime». In Donna d’inverno va «oltre i pensieri con un libro/ di Lucrezio fra le dita». A Hemingway ha intitolato una canzone. Ora ad Asti lancia un Premio d’Appello per gli scrittori secondi e terzi classificati ai grandi premi letterari. Che cosa legge l’avvocato-musicista più famoso del mondo? A quali autori si rifà il poeta premio Montale 1991? Alcuni suoi «versi per musica» si sono incollati alla lingua comune: «Onda su onda/ il mare mi porterà». «Un gelato al limon, gelato al limon». «Azzurro,/ il pomeriggio è troppo azzurro». «Messico e nuvole». «Ma quella faccia un po’ così/ quell’espressione un po’ così». Altri versi sono suoni: «Da-da-da-da. Zaz-za-raz-zaz. Cips-cips-dattidudidù-cibò-cibobò». Ricordano lo «Zung Tumb Tumb» di Marinetti, il «Clof, clop, cloch/cloffete, cloppete» di Palazzeschi, le onomatopee del Futurismo.
Poiché l’appuntamento è in libreria, cominciamo da qui: che viene a cercare?
«Mi capita di arrivarci con un’idea. O di seguire l’istinto. O di fidarmi del libraio. Godo di un privilegio: scorro qualche risvolto di copertina, annuso i libri, me ne porto via alcuni, do indietro quelli che non mi dicono niente».
Ricorda il primo libro?
«Vagamente un Pisellino alle corse, un personaggio tutto verde, vestito come Topolino, che guidava macchine da corsa. Ma sono ricordi svaporati».
Da bambino in famiglia le leggevano favole?
«Le favole me le raccontava una contadina anziana che viveva da sola in una dépendance della cascina di mio nonno poco fuori Asti, dove ho vissuto. La ricordo come un paradiso, l’ho sognata come il Paradiso».
E crescendo?
«Il Corriere dei Piccoli: il signor Bonaventura di Sergio Tofano. Pampurio ”arcicontento del suo nuovo appartamento”, l’arcivernice di Alambicchi, sor Cipolla, Meo Patacca, ”alla prima che mi fai ti licenzio e te ne vai”».
«Sotto le stelle del jazz» lei arrivò anche con i libri?
«Con l’Enciclopedia del jazz, che ho tutta rilegata. Con la Storia del jazz di Arrigo Polillo. Sono un po’ in polemica con gli italiani e la loro passione per un jazz ”bianco", quasi calligrafico. Erano suggestionati dal francese Delaunay che inizialmente aveva fatto combutta col grande Hugues Panassié e poi se n’era staccato. Si odiavano a morte. Io seguivo Panassié. Era molto trombone, razzista al contrario: solo i neri, per lui, erano capaci di fare il jazz. Però ha avuto delle divinazioni. Sapeva entusiasmarti. Ricordo una rivista in ciclostile, Le bulletin du Hot Club de France».
Altra musica, oltre il jazz?
«La musica non si impara dai libri. Ma ho letto Massimo Mila, Charles Rosen, specie il testo sul pianoforte e i suoi problemi. Sto leggendo con gran gusto Enrico Fubini: mentre molta critica dà importanza all’Austria, a Vienna, alla crisi culminata con Schoenberg, con lui si gode tutta la leggerezza francese di Debussy, Ravel e Stravinskij del periodo parigino».
I suoi poeti: da quale cominciamo?
«Da Pascoli, ritmo, cadenza. Quando facevo il militare - aviere semplice, dopo l’università - vedevo quei ragazzotti compulsare repertori di ”lettere alle fidanzate", quasi tutte con le cadenze delle poesie di Pascoli. Il ritmo è importante, basta da solo a commuoverti. Ancora adesso quando ascolto la ”cavallina storna" mi si inumidiscono gli occhi. Non c’è niente da fare».
Dopo Pascoli, chi si piazza in classifica?
«Campana, Seferis, Sbarbaro, Montale, Sereni. Campana è colore rosso scuro, fantasia superlativa, immensa capacità descrittiva. Seferis l’ho letto quando ha avuto il Nobel e mi sono innamorato forte: come il verso di Pascoli fa con il ritmo, così il suo lirismo ti affascina al di là di quello che ti può dire, ha qualcosa di aerodinamico».
Se Campana è rosso scuro, Seferis che colore ha?
«Verde acqua, come questo qui della mia camicia».
Ha nominato Sbarbaro prima di Montale...
«Amato da me quasi più dell’amato Montale. Ma non mi chieda perché: il lirismo decadente, certe asprezze. Un ignorantone come me ha diritto alle proprie percezioni, sensazioni. Di Vittorio Sereni ”sento" che doveva essere una persona squisita. Non ho raccolte di sue poesie, le ho lette sparse. Mi tornano in mente le sue immagini lacustri, le visioni notturne: "Di notte il paese è frugato dai fari,/lo borda un’insonnia di fuochi/vaganti nella campagna,/un fioco tumulto di lontane/locomotive verso la frontiera"».
Ha lo stesso rapporto con i romanzieri?
«No, sono proprio un lettore standard di oggi. Prendo questi americani che non mi fanno male pur raccontandomi le cose più atroci, le più violente: Deaver, Connelly, la Cornwell; poi gli scandinavi tipo Mankell, Larsson... La spagnola Giménez-Bartlett, Fred Vargas, pseudonimo di una donna. Sull’onda del giallo, Camilleri mi piace molto e molto mi piace Carofiglio».
Tra gli italiani ha letto quelli che contano. Se dovesse fare un solo nome?
«Piero Chiara e in assoluto Vedrò Singapore? La perfezione. Non te la conta lunga, maestro nei dialoghi. Trovo che i dialoghi siano di un’importanza assoluta e che possano rovinare completamente un libro. Chiara scrive con un incedere da verbale di questura. il cadenzare di uno che sa raccontare. Come sapeva raccontare Simenon. Sfiorano ogni tanto la poesia, senza compiacersene, un frammento qua e là nella loro semplicità e scorrevolezza. Molto bravo è quel proseguimento di Chiara che è Andrea Vitali».
Gente di lago, Chiara e Vitali, come Sereni...
«Hanno un ritmo poetico particolare. Per esempio, mi piace Van De Sfroos, cantautore comasco, musicista che compone e canta in dialetto canzoni country. Van De Sfroos non è olandese, come parrebbe, ma dialettale: ”van de sfroos", vanno di sfroso. I personaggi sono gli spalloni, i contrabbandieri. C’è della poesia lì dentro, poesia lombarda, bella soda».
E tra i classici?
«Se pensa ai russi, le dico che non li ho mai letti. Ho provato, non ce l’ho mai fatta. Con gli americani è andata meglio. Melville naturalmente, poi Truman Capote e Steinbeck, Dos Passos. L’umorista che più mi ha divertito Bukowski, a parte Wodehouse».
Nel comporre una canzone ha mai tratto ispirazione da un libro?
«La percezione musicale, l’ispirazione trovo che non sia influenzata dalla lettura di un libro. Magari il contrario».
Che cosa detesta?
«Gli scrittori francesi che vogliono fare i finti americani. E fuori dai libri, l’avverbio ”maggiormente": mi basta sentirlo per farmi sbandare».
Che cosa la fa sperare?
«Lei ce l’ha una risposta? Non lo so. Non ho molte speranze, francamente. Mi sento tagliato fuori, ormai. Stiamo entrando in una civiltà comandata da altre questioni, addirittura disumane, nel senso che superano la cognizione umana: Internet, intercettazioni... Un tragitto che non so dove ci porti. Sto leggendo La gratuità è un furto, sui problemi della pirateria informatica, scritto da Olivennes, francese, consigliere di Sarkozy. Esamina anche da un punto di vista filosofico la concezione mercantile di un mondo, siamo schiavi del digitale, fisicamente schiavi di qualche cosa che ci copia tutto. O ci stai dentro e cerchi di campare così o sei finito».
Ha una via di salvezza?
«Io non uso telefonino né computer. Mi sono già arreso, mi sono già tolto. Ho scelto la mia via di salvezza, ma non so se consigliarla».