Alessandro Ursic, La Stampa 13/8/2009, 13 agosto 2009
ALESSANDRO URSIC
BANGKOK
L’unico cambiamento è il filo spinato sulla sponda del lago Inya, in modo evitare che altri personaggi come John Yettaw raggiungano la sua villa a nuoto. Per il resto, la casa di University Avenue dove Aung San Suu Kyi ha trascorso la sua prima notte agli arresti domiciliari è rimasta uguale a come l’aveva lasciata tre mesi fa. Mentre lei era in carcere avevano tolto le barriere dal pezzo di strada davanti al civico 56; ora son tornate al loro posto.
La «Signora» ha dormito bene, dicono i suoi avvocati dopo aver potuto parlarle per un’ora. E non ha perso la speranza per un verdetto «totalmente ingiusto», chiedendo di «esplorare qualsiasi via legale» per venire liberata. Contro la condanna a tre anni - poi dimezzata e commutata in arresti domiciliari per ordine del generale Than Shwe - verrà presentato ricorso. La speranza che venga accolto è praticamente nulla: in fondo, agli occhi del regime la decisione di ridurle la pena dimostra già tutta la clemenza della giunta.
L’indignazione di Stati Uniti ed Europa è compatta. In molti Paesi, tra cui l’Italia, si moltiplicano le manifestazioni di sostegno all’icona della dissidenza. Agli appelli dei vari leader si è aggiunto ieri quello di 14 premi Nobel. Tra questi il Dalai Lama, che facendo leva sulla comune fede buddista ha pregato i generali birmani di «dimostrare magnanimità e comprensione», rilasciando Suu Kyi.
Ma trovare il compromesso anche su un semplice documento di condanna al Consiglio di sicurezza dell’Onu è praticamente impossibile. Di fronte all’impeto di Usa, Gran Bretagna e Francia, la Cina e la Russia tirano il freno. Ieri Pechino ha ricordato a tutti che la gestione di Suu Kyi è un affare interno della Birmania, di cui il mondo «dovrebbe rispettare la sovranità giudiziaria».
Con ardite formule per esprimere allo stesso tempo sdegno e sostegno, condanna e dialogo, anche i Paesi del sud-est asiatico fanno il gioco dei generali. «Profonda delusione» per il mancato rilascio di Suu Kyi, ha dichiarato ieri la presidenza thailandese dell’Asean. Ma Bangkok continua a fare affari con la Birmania.
Alla sua nemesi - si racconta che per la «Signora» provi un disprezzo quasi irrazionale - Than Shwe sembra intenzionato a concedere una prigionia leggermente più tollerante. O almeno così viene presentata: Suu Kyi avrà accesso alla radio, che riceverà però solo l’emittente del regime. La leader dell’opposizione continuerà a poter vedere quotidianamente solo le due domestiche, condannate e semi-graziate insieme a lei. Per le visite del medico personale e di esponenti selezionati del suo partito, non è ancora chiaro che limiti porrà ora la giunta.
In Birmania, dove ormai un’intera generazione è cresciuta con Suu Kyi prigioniera, l’interesse per la sentenza ha fatto per una volta andare a ruba le copie della «New Light of Myanmar», l’orwelliana gazzetta ufficiale di solito ignorata dalla popolazione. Ma la disillusione regna. Al colpo di scena della «clemenza», motivato anche con l’intenzione di «non porre ostacoli sul sentiero verso la democrazia», chi ha assistito alla scena dalla tv di una sala da tè di Yangon assicura che non sono mancati i sorrisi amari. Ieri mattina saranno stati ancora di più: il foglio dell’ordine di Than Shwe, pubblicato sulle pagine del quotidiano governativo, era datato 10 agosto. Il giorno prima della sentenza.
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