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 2009  agosto 15 Sabato calendario

IL SOGNO DI JIMI HENDRIX CHE MI PORTO ANCORA DENTRO

Jimi Hendrix impugnò come un’arma la sua mitica Fender Stratocaster bianca e, dopo essersi fermato varie volte per accordarla, si produsse in un’interpretazione che sarebbe rimasta indimenticabile di The Star Spangled Banner,l’inno americano, sul ritmo di Voodoo Chile. Dalla sua chitarra uscirono suoni distorti, scariche di rumori simili a lontani bombardamenti. Il bassista Billy Cox e il chitarrista Larry Lee stesero le braccia lungo i fianchi e si misero sugli attenti. Il brano catapultò gli spettatori nell’universo lacerato del Vietnam, in quelle paludi dove l’America stava affondando e i suoi soldati, trasformati in vittime e carnefici allo stesso tempo, respiravano l’odore del napalm immergendosi nell’orrore. Hendrix ridestò così, la mattina del 18 agosto 1969, i superstiti della tre giorni di " musica, pace e amore" di Woodstock. G
li altri se n’erano andati, sotto un temporale improvviso che si abbattè sulle 500mila persone convenute in quel luogo fino ad allora sconosciuto, vicino a Bethel, nella contea di Ulster, stato di New York, e che fece rimandare di un giorno la conclusione della kermesse.
I 180mila rimasti s’illuminarono improvvisamente ed ebbero la percezione che Woodstock non era stata soltanto una straordinaria occasione d’incontro, un’esperienza tra le tante, come il Monterrey pop festival o la Summer of love a San Francisco, ma l’avvio di una "rivolta" pacifica contro tutto ciò che minava la possibilità di esprimere i loro disagi, le loro ansie, la creatività di quella "nazione hippie" che si stava formando al di là delle convenzioni e di un "ordine" tanto sfuggente da sentirlo estraneo se non ostile.
A 24 anni dalla fine della guerra mondia-le, attraversati da altri due conflitti, quello in Corea e quello in Vietnam, sempre sul punto di dover prendere le armi contro il "nemico assoluto", l’Unione Sovietica, e in allarme per le installazioni missilistiche a Cuba, i giovani americani di quarant’anni fa, più che esorcizzare la violenza che pervadeva le loro coscienze e voleva impossessarsi delle loro esistenze, immaginavano che un altro mondo era possibile. Ma non furono compresi.
Così a Woodstock si ritrovarono il 15 agosto ragazzi e ragazze provenienti da tutte le contrade americane, richiamati dagli unici "eroi" che riconoscevano, muniti soltanto di strumenti musicali e di parole tutt’altro che "innocenti" per l’establishment che faticava a comprendere il linguaggio e le aspettative di quei figli dell’America i quali si attendevano da un Paese che aveva contribuito a liberare l’Europa di essere essi stessi liberati dai pregiudizi e dalla costrizione a combattere guerre che non li riguardavano: i diritti dei popoli non erano nell’agenda delle amministrazioni statunitensi, le quali non avevano neppure l’alibi di voler esportare nelle risaie indocinesi la democrazia, ma soltanto assicurarsi un futuro in un pianeta inquieto.
Woodstock era stato ideato da Michael Lang, Artie Kornfeld, John Roberts e Joel Roseman, quattro "figli dei fiori" con vocazioni manageriali. Avevano in mente un’iniziativa commerciale legata alla costruzione di uno studio di registrazione da mettere su nel villaggio di Woodstock. Poi pensarono a un festival musicale da realizzare nello stesso luogo. L’impresa apparve immediatamente proibitiva. Se non fosse stato Elliot Tiber (che racconta il tutto nel suo libro scritto con Tom Monte,
Taking Woodstock , Rizzoli) proprietario di un motel sul White Lake a Bethel, che si offrì di ospitare l’evento, probabilmente i giovani impresari avrebbero lasciato perdere.
Ma il fondo di Tiber era troppo piccolo per ospitare una manifestazione ambiziosa. Il giovanotto non si scoraggiò e chiese a un allevatore della zona, Max Yasgur, di affittargli i suoi 600 acri (2,4 Km quadri) per 75mila dollari. La notizia fece il giro degli Stati Uniti e la contea si trasformò in una bolgia che sorprese gli organizzatori, ma spaventò addirittura buona parte delle autorità e dell’opinione pubblica che vedeva nell’evento una gigantesca manovra "sovversiva".
Uno dei protagonisti di Woodstock, David Crosby, ha raccontato a Rolling Stone: «Pensavamo di essere tutti singoli hippie dispersi. Ma quando arrivammo là, cambiammo idea di colpo. Dal nostro elicottero vedevamo la NY State Thruway bloccata per una trentina di chilometri e una folla gigantesca di almeno mezzo milione di persone: la mente vacillava. Non era mai accaduto prima, pareva quasi che dal nulla fosse emersa una terra aliena».
Altro che un "incubo di fango e stagnazione" animato da "intrusi dall’aria freak", come scrisse il New York Times per correggersi qualche giorno dopo, quando ammise che si trattava di "un fenomeno d’innocenza" al quale quella massa enorme di giovani aveva preso parte «per avere il piacere di stare insieme, liberi di godere uno stile di vita che è in se stesso una dichiarazione d’indipendenza».
C’era qualcosa dipiù, comunque, a Woodstock. La ricerca di fughe da un’opprimente realtà piccolo borghese, per esempio, cui davano voce gli Who, Santana, Joan Baez, Joe Cocker, i Grateful Dead, Crosby, Stills, Nash and Young, Janis Joplin, i Creedence Clearwater Revival, i Jefferson Airplane, Sly and the Family Stone. E c’era anche il tentativo di denunciare, sia pure ingenuamente,la modernità,l’invasività della tecnica, il dominio dell’utile per un ritorno a un comunitarismo dalle radici rurali, a una certa idea della bellezza.
L’utopia di Woodstock non fu compresa politicamente. Per la sinistra mondiale, legata al mondo comunista, essa rappresentava una distorsione nella lotta contro l’imperialismo.Per i conservatori fu la manifestazione di un "disordine morale". Per Ernesto Assante e Gino Castaldo, che hanno rievocato quell’esperienza nel libro Il tempo di Woodstock (Laterza), fu il primo grande laboratorio «di prove generali per un mondo libero».
Forse fu semplicemente la realizzazione di un sogno che, comunque la si pensi, quarant’anni dopo continuiamo a portarci dentro, convinti che le convulsioni della modernità e la caduta degli ideali universali furono inconsapevolmente denunciati su quel grande prato dove si assiepò una "nazione" senza futuro.