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 2009  agosto 13 Giovedì calendario

IL COMPAGNO MURATORE


Nel silenzio aurorale del 13 agosto, quando nessuno se l’aspettava, furono cementate all’improvviso le prime pietre. Il progetto era stato concepito da Nikita Kruscev, fra il 3 e il 4 giugno, durante il fulmineo vertice di Vienna col presidente Kennedy.
Fu il più disastroso dei summit tra Unione Sovietica e Stati Uniti. L’imprevedibile e inafferrabile Kruscev se ne servì come di una seduta diagnostica: tastò il polso di Kennedy, lo sentì flebile e insicuro, e decise allora di conficcare una spada di cemento armato nel cuore d’Europa. Decise, in sostanza, d’infrangere la retorica della coesistenza tra i blocchi. Era giunto il momento per alzare la posta d’azzardo con l’Occidente e concedere alla Germania comunista, che si andava dissanguando e svuotando, l’ossigeno indispensabile a sopravvivere sui confini dell’impetuoso e contagioso miracolo della Germania capitalista. Commissionò quindi a Walter Ulbricht, capo inamovibile della Repubblica democratica tedesca, cosiddetta Ddr, la costruzione a ridosso di Berlino Ovest dell’ottava orrenda meraviglia del mondo.
Improvvisatosi ingegnere, Kruscev trovò in Ulbricht il muratore più adatto a quella straordinaria impresa edile. La costruzione, destinata a proiettare per 28 anni la sua ombra letale sull’intero continente europeo, nota ai tedeschi col nome di Berliner Mauer, Muro di Berlino, era stata edificata come una faraonica macchina di prigionia alta quattro metri e lunga 166 chilometri. Essa, amputando Berlino in due incomunicabili tronconi urbani, doveva bloccare le fughe dal settore orientale della metropoli verso quelli occidentali: fughe di operai specializzati, tecnici, studenti, uomini di scienza, che soltanto nei primi mesi del 1961 segnalarono la cifra d’un esodo di massa di circa 200 mila persone. Ulbricht, che definiva il Muro «barriera di protezione contro i fascisti», si rivelerà fino all’ultimo un costruttore insonne, puntiglioso, implacabile. La quarta e ultima generazione della «barriera» coinciderà con l’anno della sua morte, 1973, e si paleserà come una sintesi simmetrica fra lager nazista e gulag comunista su un suolo tedesco russificato: 300 torri di controllo, 20 bunker, filo spinato per un centinaio di chilometri, trincee anticarro, trappole, fotocellule, armi a sparo automatico, una strada interna recintata, o «striscia della morte», perennemente illuminata per facilitare la sorveglianza e il tiro delle guardie confinarie soprannominate Vopos.
Ma chi era il pedante muratore e curatore della diga berlinese che, in anni lontani, veniva sprezzantemente chiamato «compagno cellula» per il suo grigiore e zelo burocratico? Chi era il kominternista nato a Lipsia nel 1893, falegname in gioventù e figlio d’un sarto, al quale, insieme con il dotto Togliatti, Stalin aveva garantito uno speciale status d’immunità? Quale era la biografia vincente del più longevo e intoccabile dei capi comunisti dell’Europa centrorientale? Se angoliamo la storia del comunismo europeo dall’ottica della lotta per il potere, dobbiamo ammettere che Walter Ulbricht è stato uno dei più fortunati bolscevichi del secolo scorso. La Repubblica di Weimar durò quattordici anni; il Reich di Hitler dodici; il regime di Ulbricht era già arrivato ai diciannove nel 1968, l’anno traumatico che lo vide in prima fila, al fianco di Brežnev, nello scontro con i «comunisti dal volto umano» di Praga.
Rivoluzionario senza spiccate impennate rivoluzionarie, eversore da tavolino, imitatore somatico di Lenin con barbetta rossiccia e panciotto liso, sassone e bleso di pronuncia, frigido e incomunicativo, egli riuscì a trasformare la caratteristica umana più repulsiva, l’antipatia, in un veicolo di successo. Da ogni parola su Ulbricht, soprattutto quelle vergate con acido solforico da antiche compagne di partito, grondava un’avversione quasi patologica. Clara Zetkin, grande valchiria del marxismo tedesco, lasciò scritto: «Non mi piace costui. Guardatelo a fondo negli occhi e capirete quanto astuto e insincero egli sia». Non da meno era la biografa Carola Stern, ex insegnante nelle scuole di partito a Berlino Est: «Durante le purghe di Mosca anche Ulbricht contribuì all’opera della Ghepeù; lo stesso facevano i suoi avversari contro di lui. Ma c’era una differenza. Le accuse contro Ulbricht non vennero mai valorizzate. Le accuse di Ulbricht potevano invece condurre alla pena di morte».
L’antipatia che il «compagno cellula» suscitava nelle donne non dispiaceva invece a Stalin né ai massimi dirigenti stalinisti del Komintern. Essi apprezzavano proprio i tratti di carattere grigi e più anonimi dell’impopolare apparatchik sassone: li impressionava il suo freddo talento organizzativo, la sua eccezionale resistenza alla fatica, la straordinaria destrezza d’orientamento fra le scartoffie del partito. A Stalin, in particolare, piacque la disponibilità collaborativa dimostratagli da Ulbricht, al contrario di altri comunisti tedeschi, negli anni contorti e rischiosi dell’avvicinamento a Hitler. Celebre, al riguardo, resterà l’articolo firmato da Ulbricht sul giornale Die Welt stampato per conto del Komintern a Stoccolma. In polemica con l’«antifascismo primitivo» del socialdemocratico tedesco Hilferding, che perorava la necessità di sostenere nella battaglia antinazista la Francia e l’Inghilterra, il portavoce germanico del Cremlino replicava: «Il governo del cancelliere Hitler si è dichiarato disposto a intrattenere rapporti pacifici con l’Urss, mentre il blocco reazionario anglofrancese vuole la guerra contro l’Urss. Perciò non solo i comunisti, ma anche molti operai socialdemocratici e lavoratori nazionalsocialisti vedono il loro compito principale nell’impedire, ad ogni costo, la rottura del patto di non aggressione tra Berlino e Mosca». Era il 9 febbraio 1940. In quegli stessi giorni circa cinquecento «antifascisti primitivi», avversari tedeschi di Hitler emigrati in Russia, venivano consegnati dalla polizia sovietica alla Gestapo.
Il resto è in parte noto. Comandato da Stalin a fondare e dirigere la Repubblica artificiale di Pankow, Ulbricht riuscì a portare in porto le operazioni politiche più disparate: l’azzeramento dei socialdemocratici nel partito comunista, il soffocamento con l’aiuto dei carri russi della rivolta operaia del giugno 1953, infine l’«edificazione socialista» del muro blindato di Berlino nell’agosto del ”61. Nessuno avrebbe detto che il «compagno cellula» sarebbe diventato, nel 1968, tanto sicuro di sé da imporre veti ideologici e perfino diplomatici ad altre capitali dell’Est. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbe saldamente sopravvissuto a Stalin, a Kruscev, a Gottwald, a Togliatti, a Rakosi, lasciando alle sue spalle in un oblìo astorico i più famosi leader e protagonisti del comunismo germanico. Era inevitabile che un uomo così non potesse che spegnersi nel letto di morte naturale e indolore.