Lorenzo Salvia, Corriere della Sera 17/8/2009, 17 agosto 2009
FARE GLI IMPRENDITORI PRIMA DEI 30 ANNI
Aprire un’azienda nel pieno della crisi, adesso che fare impresa è veramente un’impresa. Una sfida che nei primi sei mesi del 2009, da Nord a Sud, hanno raccolto 32 mila italiani con meno di 30 anni. Un dato sostanzialmente stabile rispetto al passato ma anche una sorpresa visto il periodo difficile che aveva fatto pensare a un crollo verticale per il numero dei giovani imprenditori al debutto. « un segno di vitalità del nostro tessuto economico, che non perde la fiducia nemmeno in questo momento», dice Renato Mattioni, segretario generale della Camera di commercio di Monza e della Brianza che ha realizzato lo studio. Ma non ci sono soltanto notizie positive.
Le imprese considerate dalla ricerca sono quelle individuali, più semplici rispetto alle società, ma anche più veloci a seguire l’altalena della congiuntura. Tra gennaio e giugno di quest’anno sono stati 4.772 i lombardi sotto i 30 anni che hanno aperto una propria azienda. Sono al primo posto in Italia, una conferma rispetto agli anni precedenti. Al secondo posto c’è la Campania con 3.507 nuove imprese under 30. Forse una sorpresa ma in realtà anche questa una conferma, che regge da diversi anni. Seguono il Piemonte, il Lazio, la Toscana e un’altra regione del Sud, la Sicilia, con 2.334 nuove imprese individuali registrate nel primo semestre di quest’anno. I settori che tirano di più sono quelli dei servizi sociali (sanità e cura della persona), ma anche i ristoranti e gli hotel.
«Questi giovani – dice il sociologo Aldo Bonomi – dimostrano che il nostro capitalismo ha un Dna antico che però sa anche figliare. E fanno parte di quell’avanguardia agente che ha voglia di mangiare futuro e che bilancia gli effetti negativi della crisi, come la chiusura di tante aziende, e anche l’atteggiamento di attesa di tante aziende ». Il loro contributo, spiega il professore, potrebbe essere decisivo per far uscire l’Italia dalla crisi. E per «quell’arrancamento come sforzo di innovazione» che il maestro di Bonomi, Giuseppe De Rita, ha raccontato sul Corriere.
L’apertura di nuove imprese, specie in un momento difficile come questo, è senza dubbio una notizia positiva. Ma è davvero tutto oro quello che luccica? Forse no a sentire Carlo Edoardo Valli, che della Camera di commercio di Monza e della Brianza è il presidente: «In questo momento di crisi – dice’ non ci sono solo i giovani precari dipendenti ma anche i giovani precari imprenditori. E per loro vanno previste specifiche e mirate iniziative di sostegno». Imprenditori precari?
Quelle 32 mila giovani imprese nate nei primi mesi di quest’anno possono essere viste in due modi. Come un segnale di fiducia e di vitalità, appunto, ma anche come una spia della crisi. Almeno nel 20 per cento dei casi, secondo la ricerca, non si tratta di nuove imprese vere e proprie. il datore di lavoro che convince il dipendente a mettersi in proprio per continuare a fare lo stesso lavoro di prima ma da esterno. Ed è proprio con i più giovani, che hanno una posizione meno forte, che questa pratica si va diffondendo. Specie nel settore dell’edilizia. «In questo 20 per cento dei casi – spiega Mattioni – le possibilità che le nuove aziende durino pochi mesi sono davvero concrete ».
Non solo la voglia di fare impresa, dunque, e il coraggio di provarci quando il cielo è ancora pieno di nuvole. «No – dice ancora Mattioni – qui siamo alle imprese nate dalla disperazione, al tentativo da ultima spiaggia. Insomma, alla proletarizzazione dell’imprenditore».
In questi casi forse «è meglio parlare di operatori economici che non di imprenditori» come dice Giulio Sapelli, professore di Storia economica alla Statale di Milano. Che però vede elementi positivi anche in questo fenomeno: «Con i vecchi schemi li chiameremmo terzisti ma credo che qualcosa stia cambiando». Cosa? «Non puoi portare all’esterno un’attività affidandola a chi non sa fare il proprio mestiere. il segnale che tra i lavoratori è cresciuta la capacità elaborativa e di relazione. Quando avranno un rapporto più autonomo con l’azienda di origine allora sì che li potremo chiamare imprenditori».
La ricerca sottolinea che molte di queste aziende potrebbero avere vita breve. «Non c’è dubbio – dice il sociologo Bonomi – ma dobbiamo ricordare che il nostro capitalismo è figlio dell’imitazione». No, non il taroccamento delle merci che va tanto forte in Cina. «Da noi c’è sempre stato il fenomeno del portar via il saper fare per aprire un’altra impresa. Al netto di episodi non virtuosi anche questa mi sembra una buona notizia».
Nelle tabelle dello studio ci sono anche altri dati a prima vista sorprendenti. I giovani del Sud sembrano molto più dinamici di quelli del Nord. I ragazzi calabresi sotto i 30 anni che si sono messi in proprio rappresentano il 9 per cento degli imprenditori della regione. Primo posto in assoluto, seguito dalla Campania con l’8,5 per cento. Per capire, la Lombardia è molto più indietro, ogni 100 imprenditori quelli under 30 sono 6,4, mentre la media italiana non supera il 7 per cento.
Mezzogiorno locomotiva d’Italia? No. Anche in questo caso parliamo solo di imprese individuali, quelle più semplici del nostro tessuto economico. Quando fanno impresa, i giovani del Centro Nord scelgono spesso la forma societaria che però non rientra in questa statistica. Ma non è l’unica spiegazione: « più difficile inserirsi nella punta della freccia – commenta il sociologo Bonomi – che non attaccarsi alla coda».
Fuori di metafora: al Centro Nord la soglia di innovazione e anche di capitale necessario è molto più alta rispetto al Sud. «Nel Mezzogiorno – spiega Bonomi – c’è molto più terreno da recuperare, specie in settori come quelli del turismo o della cura alla persona. Insomma, è più facile aprire un chioschetto in Calabria che non un ristorante a Milano».
Ma anche dopo aver fatto questa tara il professor Sapelli, piemontese con origini siciliane, trova qualche elemento positivo: «I miei nonni sono venuti su accettando l’emigrazione come un fatto naturale, inevitabile. Oggi, un po’ la scolarizzazione, un po’ perché abbiamo dipinto l’emigrazione come un fatto negativo, un po’ il vento del localismo, la cultura prevalente dice che è meglio restare nel luogo di origine ». In realtà l’emigrazione da Sud a Nord non si è mai fermata.
« vero – dice Sapelli – ma partire non è più considerato inevitabile. E se uno vuole lavorare al Sud, dove le grandi imprese non ci sono, l’unica cosa è darsi da fare per conto proprio. Così, piano piano, la cultura del rischio si diffonde sempre più».