Vittorio Zucconi, la Repubblica, 17/8/2009, 17 agosto 2009
GENERAZIONE W VA IN PENSIONE IL SOGNO HIPPY
C´eravamo tutti a Woodstock, soprattutto quelli che non c´erano. C´erano Bill Clinton e Hillary Rodham, Barack Obama che aveva appena compiuto otto anni e George W. Bush, che neppure sapeva dove fosse Woodstock e mai ci avrebbe messo i suoi mocassini Ivy League. C´erano i Beatles che non ci vollero andare e Michael Jackson che aveva undici anni e ancora prendeva legnate da suo padre, perché senza Woodstock l´America di oggi sarebbe un´altra cosa. Come la notte dello sbarco sulla Luna, avvenuto pochi giorni prima, come il giorno della Caduta del Muro o il pomeriggio miracoloso in cui Trapattoni fermò Pelè a San Siro davanti a milioni di tifosi di calcio che ricordano di averlo visto senza mai avere messo piede allo stadio, il concerto nel fango da disgelo russo in una desolata fattoria di New York è stato visto da tutti e da nessuno.Presente nei miti della generazione che lo visse o che lo assorbì nel folklore dei loro genitori. Qualcosa che, come tutti i miti, non è mai esistito, ma esisterà per sempre.
C´è un´America a.W., ante Woodstock e un´America d.W., dopo Woodstock, che ha visto in quei tre giorni di musica, di fango, di canne più fitte della pioggia, di cattivi «viaggi» con Lsd finiti nella tenda del pronto soccorso e di chitarre picchiate in testa agli oratori come Abbie Hoffman che osavano parlare di politica. l´evento dal quale fuggire o al quale tornare come a una natività inoffensivamente satanica.
«Mia madre, che c´era davvero, probabilmente nuda e intirizzita scaldata dalle braccia di uno sconosciuto che non aveva mai incontrato prima - ha scritto Mara Goldwyn, figlia di una figlia dei fiori - mi costrinse a fare un pellegrinaggio a Woodstock quando avevo 8 anni e di quel viaggio ricordo soltanto la mia noia e la sua delusione nel vedere che non era rimasto altro che una placca ricordo, come la pietra tombale sulla sua gioventù».
Ma la vera delusione che quella signora tornata alla ricerca del fango perduto provò, fu la constatazione che oggi tutte le ricerche demografiche dimostrano gelidamente. Il fatto che quel «generation gap», quell´abisso generazionale fra i vecchi, gli ultra trentenni dei quali non ci si doveva mai fidare, e i ventenni nati nel boom del dopoguerra, dove l´ipocrisia, il perbenismo, la «correttezza politica», la routine della vita avrebbero dovuto sprofondare, non esiste più. E la «Generation W», quel milione di giovani che inondarono i campi melmosi del signor Max Yasgur rifiutando di pagare i 18 dollari per tre giorni di festival, è diventata indistinguibile da tutto l´alfabeto di generazioni che l´hanno preceduta o che l´avrebbero seguita, dalla A alla Z.
accaduto l´ovvio, quello che i cinici professionali del New York Post il 17 agosto del 1969 riassunsero in un titolo: «Rock in the mud», rock nella melma. Finita la musica e seccato il fango, i corifei con la chitarra di Jimi Hendrix, le voci degli Who, le filippiche di Abbie Hoffman (quello che si prese una chitarrata in testa dal solista degli Who, Pete Townshend) capirono che Woodstock era stata la dimostrazione del fantastico potenziale di incassi rappresentato dai concerti di massa, possibilmente senza melma. Gli organizzatori, dopo 80 querele reciproche per danni, capirono che sarebbe stato più lucroso mettersi d´accordo piuttosto che far guadagnare gli avvocati. E il milione, o cinquecentomila, o quanti fossero i figli e le figlie dei fiori spesso fuggiti da casa per celebrarsi in quei prati, a casa tornarono. Si tagliarono i capelli, si coprirono, si lavarono, finirono l´università o trovarono un lavoro, ebbero figli, trasformarono la «controcultura» in cultura dominante. Chi era «out» divenne «in». Il 74 per cento delle ragazze che danzavano strafatte sulle note di Jerry Garcia e dei Grateful Dead divennero madri di famiglia, signore regolarmente sposate, e divorziate, con gli «squares», i regolari, i cloni dalle «nove alle cinque» col posto sicuro in banca.
Il popolo dello Lsd è divenuto il popolo dei Viagra. Le missionarie del libero amore, che poi tanto tanto libero non era, praticano il culto del botox e del «nip and tuck», della ripresa della pelle affranta sulle guance. Il mantra del «guardare al tuo vicino come a tuo fratello» è divenuto lo sguardo sospettoso al passeggero seduto accanto a te in aereo, nel dubbio che sotto quella barba troppo nera si nasconda l´anima di un martire assassino. Il paradigma della speranza, che in quell´estate del 1969 aveva raggiunto la sua massima coniugazione, è divenuto il paradigma della paura, che oggi domina la vita della Generazione W, paura della vecchiaia, della malattia, del mutuo, del pignoramento, delle tasse, delle rughe, dell´impotenza, dell´alieno, del jihadista, della pensione disciolta nel cratere della Borsa. Mentre i menestrelli invecchiati della rock revolution tentano tournée a 60 anni per coetanei nostalgici e brontolano contro la maledetta Internet che permette di scaricare i loro pezzi senza pagare diritti.
Credevano di avere preso il potere, e il potere ha preso loro. Ci era arrivato Bill «Bubba» Clinton, che di quella generazione era stato il primo alfiere, dopo l´ultimo hurrah della «grande generazione» dei figli della guerra esaurita con il vecchio Bush. A Woodstock lui credeva di esserci stato, in spirito. Alle marcette pompieristiche della politica tradizionale aveva, per primo, preferito un classico del soft rock, «Don´t stop thinking about tomorrow» dei Fleetwood Mac, suonata ossessivamente a ogni comizio elettorale.
Gli avversari lo avevano definito il primo presidente «hippy», e lui, che pure in quegli anni studiava legge come un secchione e si meritava borse di studio, non aveva fatto nulla per dissipare l´equivoco. Quando lo pizzicarono a confondere lo Studio Ovale per le marcite di Woodstock e le segretarie per le figlie dell´amore, la destra cristiana indicò subito nella cultura del permissivismo, del lassismo, del relativismo seminata dalla sua corrotta generazione, la matrice dello sfacelo morale della gioventù americana. Fu per tamponare definitivamente questa emorragia di valori, che i benpensanti si aggrapparono a George Bush, che era l´anti-Woodstock, il bravo giovane che aveva attraversato la valle delle tenebre uscendone un po´ ciucco di whisky, ma poi redento.
Dunque, la generazione W aveva prodotto due presidenze, il negativo l´una dell´altra, in un´ultima operazione algebrica che ne ha azzerato l´esperienza e ne ha esorcizzato l´eredità. Stanno andando tutti in pensione, se ancora hanno una pensione, quei ragazzi e quelle ragazze che si sono viste nei documentari nostalgici sulla «festa della pace e dell´amore», che forse ha prodotto amore, ma certamente non pace. E´ più facile trovarli nelle case per anziani in Florida a giocare a Bingo, o nei consigli di amministrazione di grandi aziende dove siedono i soli che a Woodstock dicono di non essere mai andati, anche se magari sono tra i pochi che ci furono davvero: almeno 250 di quei corpi inzuppati sono entrati successivamente nei «board» di corporation e banche, e forse ora capiamo il perché di qualche crack.
A Washington, sul soglio massimo del potere, siede un uomo che incarna, senza la supponenza bigotta di Bush, tutto ciò che Woodstock avrebbe voluto frantumare, il perbenismo famigliare, la fedeltà coniugale, la paternità «new age» con pari responsabilità nell´educazione dei figli, la breve e presto abbandonata esperienza con lo spinello, lasciato cadere per più nobili imprese. Barack Obama è il campione della «post Woodstock generation», che senza Woodstock, le estati dell´amore, le ribellioni effimere, ma sincere, non sarebbe mai arrivata al potere. Per cambiare dal di dentro, non dal di fuori, la società. E che, come tutte le generazioni, soprattutto in America, crede di poter reinventare ogni cosa da capo, da sé stessa, ignorando di essere figlia anche di coloro che pensano di poter chiudere nel tabernacolo vuoto del mito e dei tristi musei del tempo perduto. Come Woodstock.