Marco Ferrante, Il Riformista, 14/8/09, 14 agosto 2009
I CAMBIAMENTI DI CASA FIAT
L’apertura di un’istruttoria da parte dell’agenzia delle entrate sull’eredità Agnelli è un atto dovuto, come ha spiegato il capo dell’Agenzia Attilio Befera. La procura di Torino dice che non ci sono ipotesi di reato. Così per ora c’è niente più di quanto già non si sappia. Da una parte c’è una furibonda lite ereditaria nella famiglia che per un secolo ha incarnato l’idea e la via italiana al capitalismo. Dall’altra che esiste la possibilità di un patrimonio estero: Margherita Agnelli annette questa possibilità a un’opa lanciata nel 1998 da Ifi sulla controllata estera Exor che avrebbe procurato un ingente trasferimento di denaro a vantaggio del principale azionista di Exor, all’epoca Gianni Agnelli.
Si è discusso molto negli ultimi anni di che cosa sia stato il patrimonio personale di Agnelli. Nessuno lo sa con precisione; di sicuro è il risultato di una lunga sedimentazione dovuta a cent’anni di grande ricchezza famigliare. Secondo le ricostruzioni, il patrimonio personale dell’ex presidente della Fiat era la somma di molte cose diverse. Innanzitutto la quota di controllo dell’accomandita (la società che guida la catena di comando della Fiat).
Poi le proprietà immobiliari (case, stabili, terreni), i quadri, le barche, e quindi l’accumulo di una ricchezza di tre generazioni, accantonamenti personali, fatta di risparmi, interessi, patrimonio azionario e relative plusvalenze, proprietà estere; secondo una tesi - che alcuni giudicano inattendibile - in questo patrimonio personale potrebbe esserci persino una remota traccia di parte della dotazione di sicurezza che sarebbe stata messa insieme da Vittorio Valletta tra il 1946 e il 1966 quando lasciò la guida della Fiat, per assicurare la famiglia - gli undici nipoti del senatore Agnelli, il fondatore - dalle situazioni di emergenza e persino dai rischi politici legati alla proprietà della Fiat che già alla fine della guerra li avevano portati a un passo dall’esproprio e che costarono al senatore l’epurazione (del resto è la stessa Susanna Agnelli in Vestivamo alla marinara a raccontare ciò che le disse Galeazzo Ciano: «se ammazzano me, ammazzano anche te»; la cosa non successe, ma per tutti i vent’anni successivi Valletta fu estremamente prudente).
Per il momento il patrimonio estero è una denuncia della primogenita di Gianni Agnelli e l’oggetto di una causa al tribunale di Torino. Vedremo che cosa succederà.
Probabilmente, però, il litigio famigliare, l’eredità contesa, casa Agnelli divisa, gli avvocati che vanno e vengono (e litigano anche loro), i giudici, il tribunale, gli articoli e le rivelazioni di stampa alimentati dalla battaglia legale, stanno contribuendo a rafforzare un altro aspetto di questa saga: la lenta assimilazione della famiglia che aveva esercitato una forma di regalità sostitutiva in un paese che aveva perso la sua famiglia reale, a un quadro di capitalismo normale, di grande ricchezza borghese, ma priva del manto mitico che gli Agnelli avevano tessuto dal 1930, e vestito per tutto il dopoguerra (a partire dai fasti degli anni ’50 con le gesta di Gianni, e il trionfale matrimonio veneziano di Ira Furstenberg, figlia di Clara Agnelli, con Alfonso di Hoenlohe-Langenburg), fino alla morte di Gianni nel 2003.
Lo scontro per l’eredità li rende più simili a tutte le altre grandi famiglie del capitalismo italiano, dai Pirelli investiti quindici anni fa da un problema di ricambio generazionale, ai Marzotto che si divisero qualche anno fa, ai Benetton e ai Berlusconi anche loro alle prese con la gestione di un riassetto che permetta a tutti i rami famigliari di avere un peso. Eppure anche in questo caso la rivendicazione di Margherita Agnelli è solo la formalizzazione mediatica di un cambiamento che c’è già stato. La famiglia Agnelli giunta alla sesta generazione è già una famiglia molto diversa da quella in cui regnava Gianni o dei tempi in cui Edoardo Agnelli, figlio del fondatore, vinceva cinque scudetti consecutivi con la Juventus o accettava il passaggio (fatale) in idrovolante dell’asso dell’aria Arturo Ferrarin. Gli Agnelli sono cambiati perché i tempi sono cambiati, perché la famiglia è molto più numerosa, perché i vincoli della parentela sono inevitabilmente più larghi, perché gli stessi cognomi cambiano (il capo famiglia si chiama Elkann). E cambia il ruolo istituzionale. I componenti della famiglia non hanno posti di responsabilità operativa nell’azienda Fiat, sono azionisti di riferimento, stanno trasformandosi in gestori di un portafogli d’investimento (l’ultimo acquisto è stato una piccola quota, ma simbolicamente significativa nel principale settimanale economico del mondo, l’Economist), sono disponibili a varare il molte volte evocato scorporo delle attività automobilistiche (Fiat Auto) dalla holding Fiat Group, sono disponibili cioè a rinunciare al controllo di Fiat+Chrysler e a diventarne grandi azionisti con una quota da stabilirsi. Sono sempre meno concentrati sull’Italia e non hanno più una vocazione egemonica sul sistema economico e industriale del nostro paese: questo cambiamento, che è il principale, è già avvenuto. Si è consumato nella grande crisi dell’inizio degli anni 2000 ed è diventato esplicito con l’arrivo alla guida del gruppo di un manager italocanadese, Sergio Marchionne, del tutto estraneo all’antica liturgia delle relazioni tra l’azienda e il paese in cui è nata e prosperata (chi avrebbe mai detto che un giorno un capo della Fiat avrebbe potuto dire a proposito di Mezzogiorno e di indotto: «Ma ci siete mai stati a Termini Imerese? Intorno alla fabbrica non è cresciuto niente»).
Le ultime pieghe della vicenda ereditaria rilanciano una diffidenza di fondo nei confronti della famiglia che controlla la Fiat da più di un secolo. Qualcuno tornerà a chiedere conto del bilancio storico (quanto la Fiat abbia avuto e quanto abbia dato allo Stato), qualcuno rimprovererà agli azionisti di riferimento di non essere stati abbastanza generosi con la loro azienda. In realtà questo genere di argomenti è estremamente controverso. Del primo si discute da anni nella sostanziale assenza di dati certi. Del secondo, in un classico della letteratura economica italiana recente, Licenziare i padroni (Feltrinelli, 2004), Massimo Mucchetti scrisse che nei quindici anni tra il 1986 e il 2001 la famiglia perse in termini di ricchezza circa 3,6 miliardi di euro, il prezzo pagato alle incertezze nelle scelte di quella fase, quella della coppia di comando Agnelli-Romiti.
Certo, è probabile anche - sta già avvenendo - che lo scontro ereditario, e i suoi cascami, il legato a favore di una signora francese, i conti esteri, le fondazioni e le conseguenze fiscali della causa diventino il punto d’attacco per una nuova stagione di revisionismo sul più simbolico dei capitalisti italiani, Gianni Agnelli. L’epopea di Agnelli è una storia letteraria: è la storia di un uomo che fu molto ricco, molto potente, molto amato e incredibilmente portato per la mediaticità. anche la storia del capo del capitalismo di una potenza industriale che stava alla periferia dell’Occidente che nei difficili anni Settanta contemporaneamente garantiva del suo paese in America e che nel suo paese stette dalla parte di chi incoraggiò l’inclusione politica dell’avversario, a partire dal rapporto con Luciano Lama. Non raccolse risultati politici da quell’impegno, non era il suo genere. Del resto risultati politici significativi non li aveva ottenuti nessun imprenditore, nemmeno quelli che l’avevano cercato (né Adriano Olivetti, né Achille Lauro, per esempio, per dire due estremi). Sarebbe stato Silvio Berlusconi - con sorpresa di tutti, a cominciare dallo stesso Agnelli - a raccogliere e a vincere la sfida della rappresentanza borghese. Anche da questo punto di vista, il litigio ereditario, e il faro fiscale, non ci fornisce retroattivamente elementi nuovi di giudizio su Gianni A., e il civico senso del dovere che rivendicava. Dopotutto, per quanto fosse un uomo con lo scettro, era anche lui un imprenditore del nord, con le abitudini, le debolezze, le convenienze e le caratteristiche del suo ceto (basta riandare ai rapporti di goliardia sociale che intrattenne con l’eccentrico Dino Fabbri, l’editore).
Il giudizio su Agnelli, come pezzo di storia economica italiana, naturalmente non può essere formulato a partire da questa vicenda ereditaria. A determinarne il giudizio ci sono la sua storia, i suoi successi e i suoi errori, perché era stato un italiano educato a esserlo, perché per una ragione analoga mista alla vanità non volle vendere la Fiat, perché fino agli anni 80 era stato un uomo del suo tempo e lo aveva interpretato, e perché la crisi della Fiat degli anni 90 fu sì una crisi aziendale di potere e di scelte industriali di cui condivise le responsabilità, ma anche una porzione della crisi generale, che colse impreparato anche lui, e che investì tutta la classe dirigente economica e politica.