Antonio Gnoli, la Repubblica 13/8/2009, 13 agosto 2009
PIPPERNO: PERCHE’ RINVIO IL MIO ROMANZO
"Un narratore per diventare grande deve avviarsi ai sessant´anni e aver molto vissuto"
"Il discrimine che divide il testo pretenzioso da quello eccellente a volte è minimo"
"Sono afflitto dalla mediocrità e pieno di dubbi. Si deve resistere agli editori"
L´autore di "Con le peggiori intenzioni" tra il nuovo libro e le idee sulla letteratura
Il nuovo romanzo di Alessandro Piperno - molto atteso dopo l´esordio folgorante di Con le peggiori intenzioni - si chiamerà probabilmente Gli inseparabili. Il libro, che sarebbe dovuto uscire alla fine di quest´anno, come uno dei titoli forti di Mondadori, slitterà. C´è molta sofferenza e rabbia nel modo in cui Piperno ci ragguaglia: sui dubbi che ha, sul bisogno di prendersi tutto il tempo necessario per rifinire e portare a termine la sua seconda prova letteraria. Sembra Antigone che difende il diritto del cuore, mentre dall´altra parte c´è Creonte che rivendica le leggi della città, ossia un editore che ha fretta di chiudere una partita che non risponde solo ai dettami della creatività, ma anche a quelli del conto economico.
Guardo Piperno che mi siede di fronte. Ha una mano libera, mentre l´altra stringe una pipa: la brandisce, la agita, la strizza, la strangola. Ed è come se ogni volta denunciasse uno stato d´animo, il passaggio di un pensiero improvviso: leggero, angosciante, insolente. Comincia parlando di letteratura. Confessa: «Da un punto di vista del gusto letterario mi ritengo un omosessuale gerontofilo. Nel senso che a me piacciono, salvo alcune splendide eccezioni, solo scrittori maschi che hanno superato abbondantemente i cinquant´anni».
E a cosa lega questa predilezione?
«Alla convinzione che il romanzo, più di altre discipline, è un genere sporco, legato al disfacimento dell´esistenza. Un poeta, un rockettaro, un matematico sono più creativi a vent´anni; un narratore per diventare grande deve avviarsi ai sessant´anni; deve aver perso i genitori, e vissuto una vita per cui ogni qualvolta si gira in dietro scorge desolazione e macerie».
Si scrive a queste condizioni?
«Non le sto suggerendo regole estetiche. Sto solo dicendo che tutto quello che a me piace in campo narrativo deve avere quella voce lì. Arrivo ad aggiungere che preferisco la voce di Scott Fitzgerald in Crack-Up a quella del Grande Gatsby».
Ammetterà che ci sono stati grandi esordi letterari di scrittori molto giovani.
«Certo. Basta andarsi a spulciare le storie letterarie: Gli Indifferenti di Moravia, I Buddenbrook di Mann, Il giovane Holden di Salinger. Però...»
Però?
«Sono come dei grandi afflati di vitalità, ma ancora acerbi, incapaci di dare il senso di una vita compiuta. Quando nella Recherche, Bergotte sta morendo e continua a bere flûte di Champagne, Proust ha un commento bellissimo: Bergotte aveva ormai raggiunto la frivolezza dei morituri. Ecco, per scrivere un romanzo bisogna avere quello stato d´animo, quella voce lì».
Lei dà moltissima importanza a queste elaborazioni del lutto.
«Il romanzo è anche un´elaborazione del lutto: è esperienza fatta di sporcizia e sparizione».
La critica ha visto nel suo esordio molte analogie con lo stile di Philip Roth. Si riconosce?
«La mia narrativa, per quel poco che si è espressa, è debitrice verso molti scrittori. C´è anche Roth naturalmente. Ma trovo grottesco che io venga paragonato a lui che rappresenta un pezzo di storia della letteratura americana, mentre io tutt´al più ho scritto un romanzo brillante».
Non si ama come scrittore?
«Ho sempre convissuto con una forte sensazione di mediocrità. Ed è lo stato d´animo che probabilmente sta rallentando la pubblicazione del mio secondo romanzo».
Riesce a spiegare che cosa è esattamente questa mediocrità che prova?
« la sensazione che mi assedia costantemente di essere inadatto alla bisogna. Lo dico senza nessun vezzo di autocompatimento. Sul mio lavoro di scrittore sono pieno di dubbi. Noto, viceversa, che la maggior parte dei miei colleghi prendono molto sul serio se stessi e poco seriamente quello che fanno. Perché altrimenti certi libri non li vedremmo in circolazione».
Questa sua resistenza psicologica ha un´origine?
«Quando non avevo ancora trent´anni immaginavo che nella vita dovessi fare solo lo scrittore. Non mi interessava altro. Poi venne la crisi: la classica sindrome di Salieri. Pensavo cioè di essere provvisto dal cielo del dono di capire la bellezza, ma di non saperla produrre. un supplizio atroce. Credo che lo sforzo titanico, muscolare, per scrivere il primo romanzo sia nato da questo stato di frustrazione».
E ora la frustrazione è tornata?
«Ha l´andamento ciclotimico. Vivo in un´oscillazione continua tra entusiasmo e sensazione di fallimento. La verità è che il discrimine che divide la cazzata pretenziosa dal libro eccellente a volte è minimo. Ci sono capolavori che hanno rischiato di diventare delle ambiziose puttanate».
Qualche esempio?
«Tutti i romanzi di idee rischiano il pretenzioso. Il Doctor Faustus, La montagna incantata, L´uomo senza qualità, per citare i primi esempi che mi vengono in mente. Però poi si sente che sotto hanno il fuoco della vita».
E in quali non lo avverte?
«In Autodafé di Elias Canetti».
Pensa sia un romanzo mancato?
«Penso che sia un grande libro, ma non un grande romanzo. Un altro caso analogo è La morte di Virgilio di Hermann Broch. Personalmente ho la sensazione che nell´era più feconda del romanzo novecentesco, cioè nella fase del modernismo degli anni Venti, gli scrittori si fossero persuasi che era auspicabile scrivere romanzi che rompessero con il pubblico. Più erano difficili e sofisticati, più erano inaccessibili e complessi e più erano considerati dei grandi romanzi».
E lei condivide?
« una questione di età. A vent´anni avevo lo snobismo per leggere e apprezzare quella roba. Oggi dico che quegli scrittori stanno una spanna sotto Stendhal. Credo che aver frequentato il romanzo americano abbia contribuito a farmi provare un rispetto maggiore per il pubblico».
E per il mercato naturalmente.
«Perché no? Sono convinto che anche il best-seller più degradato intercetti qualcosa di autentico, corrisponda a un bisogno del pubblico. La riuscita di un romanzo spesso dipende se sa interpretare lo spirito del tempo».
E oggi, che ne è del romanzo italiano, cosa interpreta?
«Ho la sensazione che ci troviamo in una fase eclettica. banale dirlo, ma probabilmente le future storie della letteratura ricorderanno questo periodo come gli anni di Gomorra, il libro più importante e rappresentativo che sia stato scritto. Allo stesso tempo, l´influenza che ha avuto sul contesto della narrativa contemporanea, a parte qualche patetico tentativo di imitazione, è nulla».
E il suo nuovo romanzo che cosa è, cosa racconta?
«Ho costruito una storia attraverso alcuni archetipi che sono poi le grandi leggi che dominano da sempre la nostra vita. Nel caso specifico racconto il legame particolarmente drammatico tra due fratelli. una storia in cui risuonano gli echi contemporanei: gli anni Ottanta, la guerra del 2006 in Israele, vicenda nella quale, per ragioni di origine, mi sento fortemente implicato. Però quello che mi auguro è di aver conservato un atteggiamento equanime, senza condanne né indignazione. In fondo, gli scrittori che amo di più sono quelli di cui non riesco a capire il colore politico».
Il romanzo è slittato. Ha idea di quando farlo uscire?
«Quando sentirò che è pronto. Bisogna resistere agli editori. Vale anche per i miei colleghi: dobbiamo scrivere buoni libri e gli editori smerciarli. Quando le due forze trovano un compromesso, si arriva al disastro artistico».
Non è che Piperno teme il giudizio del pubblico e della critica?
«Venendo da un exploit che ha suscitato entusiasmo e ostilità, è evidente che il timore esiste. Al tempo stesso mi dico anche che non devo pensare a quello che gli altri pensano. Soprattutto non credo a quello che pensano e dicono gli editori. Ci sono questioni che non hanno niente a che vedere con la qualità del romanzo e vorrei che restassero fuori».