Paolo Di Stefano, Corriere della sera 13/8/2009, 13 agosto 2009
QUEL PROF CHE MI HA CAMBIATO LA VITA
«Sbagliai l’esame di letteratura Ma mi diede 27»
Lo scrittore: capii qual era il mio futuro
Nella sua grande casa affondata nell’umidità della campagna di Biandrate, Sebastiano Vassalli lavora al suo nuovo romanzo. Vacanze? «Come si fa, non riesco a interrompere». Interrompe allegramente, invece, per ricordare la Milano dei primi anni Sessanta, quando era studente di lettere alla Statale: «Non uno studente modello, diciamo un po’ medievale, alla Villon: i treni funzionavano meglio di oggi e facevo avanti e indietro da Novara, dove abitavo. Non frequentavo i corsi perché mi guadagnavo poche lire facendo dei lavoretti, bibliotecario per qualche mese, supplente qua e là, erano anni di bohème, se mi avessero chiesto che cosa avrei fatto nella vita, avrei risposto il pittore ».
Ventenne, Sebastiano dipinge, curiosa tra le gallerie, frequenta gli ambienti (poveri) dell’arte e i caffè di via Brera: «Era più facile trovarmi lì che in università». Grazie alla pittura, si avvicinerà poi al Gruppo 63, quando a Torino incontrerà Edoardo Sanguineti. Ma fermiamoci a Milano: «Allora era una formidabile capitale della cultura, piena di cose ma con meno automobili di oggi. Era un centro mondiale del mercato dell’arte, con 350 gallerie, poi i teatri e le case editrici, le librerie e i centri di cultura… Attraversavi corso di Porta Romana, arrivavi in Bianca di Savoia, alla Mondadori, e incontravi Vittorini: a me è capitato di parlargli due volte. Un giorno, c’era una nebbia fittissima e in via Manzoni ho girato l’angolo e mi sono scontrato con Piovene. Oggi provo sofferenza quando vengo a Milano ».
Insomma, siamo nel ”63. Vassalli deve sostenere l’esame biennale di Letteratura italiana, una prova da far tremare le vene ai polsi. Il titolare di cattedra era Mario Fubini, uno degli italianisti allora più autorevoli, accademico dei Lincei nonché direttore di prestigiose riviste scientifiche (i suoi saggi sull’Arcadia, sull’illuminismo italiano, su Parini, Alfieri, Foscolo, sul Romanticismo fanno ancora testo): « una persona che ricordo con affetto, per quanto sia possibile provare affetto per un professore che ho visto una sola volta. Allora, il rapporto umano con i docenti era nullo anche per chi andava a lezione, figurarsi per me. Fubini, poi, era il titolare dell’unica cattedra di italiano, lo potevi vedere da lontano, era quasi inavvicinabile, uno di quei baroni prima di parlare con i quali dovevi fare un trafila di dieci assistenti».
Il personaggio viene descritto con tre caratteristiche peculiari: «Qualcuno, magari in famiglia, qualche volta l’avrà pure visto sorridere non dico ridere, ma a uno studente appariva di una serietà impressionante. Aveva capelli scuri e molto folti ma solo fino a metà del cranio, aveva una stempiatura alta, segnata da una linea esatta sopra la fronte, parlava un ottimo italiano con vocali chiuse tipicamente torinesi e non guardava in faccia nessuno, tanto meno durante gli esami. Restava tutto il tempo, con la sua fronte esagerata appoggiata a una mano, a guardare solo i fogli sottostanti».
Sul suo conto circolavano leggende poco rassicuranti (per gli studenti e in particolare per le studentesse): «Si favoleggiava della sua misoginia, forse solo perché essendo una facoltà soprattutto femminile finiva per bocciare spesso e volentieri le donne, che ogni tanto davano in escandescenze. Si raccontava che una studentessa l’avesse minacciato con una pistola, ma non so quanto fosse vero. E di un’altra che arrivò all’esame con una pila di libri legati da un elastico, la appoggiò sul tavolo e quando venne mandata via gliela scaraventò sul cranio. Questo episodio era più attendibile ». Per accedere all’esame orale non bastava però poter dimostrare la frequenza: «Di solito, visto che non frequentavo, l’attestato delle presenze lo ottenevo svenandomi e cioè dando cinque o diecimila lire a un bidello che mi procurava le firme. All’epoca era un bella sommetta. Prima però dovevi superare una prova scritta».
La prova scritta. Eccoci alla svolta della vita: «L’Assistente dettò un sonetto petrarchista: bisognava farne l’analisi stilistica e eventualmente provare ad attribuirlo». Siccome il petrarchismo occupa almeno due secoli di letteratura italiana con schiere di poeti minori, individuare l’autore di un sonetto anonimo non doveva essere semplicissimo per uno studente: «C’era un gruppo di studentesse che entrò nell’aula-anfiteatro, dove si teneva l’esame, portando di nascosto un volume a testa della Storia della letteratura del Flora, che allora era il massimo. Quando l’assistente dettò il tema, partì sottovoce la consultazione sul possibile autore: io per un’oretta stetti ad ascoltare i nomi che giravano, finché mi feci le mie convinzioni e cominciai a scrivere. Ricordo che consegnai abbastanza presto e uscii». Di fronte alla bacheca con i voti, la sorpresa: «I voti degli scritti con Fubini erano in genere molto bassi: c’erano quelli che dovevano rifarli e gli altri che superavano molto raramente il 20-21. A me mise 27». Sebastiano Vassalli ride di gusto al ricordo: «Rimasi incredulo, quasi sconvolto. Quando mi sedetti davanti alla fronte esagerata di Fubini, l’assistente gli sottopose il mio tema: il professore mise a fuoco i miei fogli, li sfogliò lentamente uno per uno, arrivò fino in fondo e disse: ’ tutto sbagliato. Ma è così convincente!’». Vassalli scandisce ridendo: « tutto sbagliato. Punto. Ma è così convincente. Punto esclamativo!». E giù un’altra risata. In effetti, la sua attribuzione era sbagliata di un secolo circa. Sarebbe stata una vera impresa individuare in quei quattordici versi Bernardo Tasso, il padre del più illustre Torquato: «Non ricordo più qual era la mia ipotesi, ma era quattrocentesca o secentesca: un secolo esatto di scarto in avanti o indietro. L’osservazione di Fubini lì per lì non mi colpì, ma poi ripensando negli anni al suo vero significato la vidi come un preannuncio di ciò che avrei fatto nella vita. La svolta da pittore a scrittore arrivò gradualmente, quasi senza accorgermene, anche se già allora nella figurazione che dipingevo c’era già il raccontatore. Ma io non lo sapevo ancora».