Nico Cereghini Riders n.12 Settembre 2009, 13 agosto 2009
Mike Hailwood raccontato da Nico Cereghinii «Accidenti, e non mi sono neanche impegnato al massimo»
Mike Hailwood raccontato da Nico Cereghinii «Accidenti, e non mi sono neanche impegnato al massimo». Migliorava il record al Tourist Trophy, tutti gli si facevano intorno raggianti, ma nulla poteva convincerlo: Mike Hailwood non pensava di essere un pilota così speciale, non si prendeva del tutto sul serio, e forse per questo è diventato una leggenda. Mike The Bike. Facile. Quattro lettere, il suo nome come la moto, e in più anche la rima. Come una canzone. E quel cognome, Hailwood, che pare l’ultima sgassata del meccanico nel riscaldamento di un motore da corsa con tanti cilindri. L’ago a 15 mila giri e subito dopo a zero, immobile. morto presto, Mike. Come tanti altri miti: 41 anni, due figli piccoli in macchina con lui, a Portway nelle Midlands. Tornavano a casa dopo aver comprato del fish and chips. Il buio della sera, un camion che fa l’inversione a U, tanta pioggia, l’asfalto bagnato, l’impossibilità di evitare lo schianto. Michelle di dieci anni muore con lui mentre il piccolino, David di sette anni, sopravvive. La moglie a casa ad aspettarli. Mi viene da pensare che il suo rivale più importante è stato Giacomo Agostini, arrivato giovanissimo alla MV Agusta quando proprio l’inglese era il caposquadra, e che Mino è certamente il numero uno assoluto nei numeri, con i suoi 15 titoli mondiali. Eppure molti pensano che Mike sia il più grande. Credo che le ragioni siano due: primo, Hailwood era più comunicativo, più vicino allo spirito del tempo; secondo, Mike non è invecchiato; ha corso soltanto in tuta nera e casco a scodella, non ha mai appoggiato il ginocchio a terra, ha evitato la tv che fruga dappertutto e uccide il mistero, ha realizzato l’ultima impresa con la Ducati al TT e poco dopo ci ha lasciato. Senza appassire, senza tradire. Infanzia ricca, la sua, ma non facile: il padre Stan era ambizioso e duro, la mamma non l’ha mai conosciuta (lasciò la famiglia pochi giorni dopo il parto di Mike), c’erano le governanti in un casa troppo ricca e troppo grande, e la sorella maggiore Christine è stata l’unica consolazione. Il padre in realtà era di origini modeste, ma era diventato un ricchissimo commerciante di moto e poi anche di auto. Certo del principio che basta volere e tutto si ottiene, Stan voleva fare del figlio un grande pilota: a sette anni gli preparò la prima motociclettina (tre marce, e senza la leva dell’avviamento «così impari la partenza a spinta»), a 17 gli trovò un lavoro alla Triumph cominciando dal basso, dalla catena di montaggio; poi Stan cercò delle buone moto da corsa e gli mise Percy Tait (pilota e collaudatore) davanti alle ruote per imparare le traiettorie. Da principio la stampa britannica non ebbe molta simpatia per la coppia degli Hailwood, e bollò Mike come un ragazzino viziato e neanche tanto talentuoso. Invece il padre aveva visto giusto e in realtà non spese così tanti soldi: fece soprattutto pubbliche relazioni. E alla fine Mike trovò la sua strada. Aveva stile, aveva coraggio, un sorriso che conquistava. Piaceva a tutti, soprattutto alle donne. Amava scherzare, spesso si travestiva da hippy o da donnaccia, beveva volentieri in compagnia. Di meccanica sapeva quasi niente, al massimo poteva cambiare una candela; eppure la sua sensibilità era nota: Nobby Clark, storico tecnico dei campioni, raccontò una volta che nelle prove era capace di fermarsi e dire: «Una delle valvole di scarico del cilindro tre mi sembra puntata… ». E guidava la Honda 250 sei cilindri con 24 valvole, mica una mono con due. A quell’epoca erano ben pochi i piloti capaci di sviluppare una moto da corsa, e Mike non era fra quelli. In compenso, che la moto fosse stabile o prendesse tutto il rettilineo serpeggiando, cambiava poco: lui si adeguava, andava forte, e imparava in fretta ogni pista. L’ho visto correre, e ci ho anche parlato due volte. La prima volta a Monza, nel 69. Lui aveva chiesto una delle Benelli 500 di Pasolini per correre il GP delle Nazioni di settembre aggirando il divieto della Honda, che dall’anno prima lo pagava per star fermo; arriva nel paddock un giovedì pomeriggio nebbioso con una Iso Grifo grigia metallizzata, apre il cofano sul motore rovente, tira fuori un sacchetto di caldarroste e le dispone con cura sulla testata. Chiacchera un po’ con un paio di amici, e quando le castagne sono belle calde le distribuisce in giro (anche a me che guardavo) con un sorriso. Quella volta gli ho detto grazie e lui ha risposto prego, in italiano. E io, ventenne già barbuto, ho toccato il cielo con un dito. La seconda volta all’Estoril (Portogallo) nell’80, l’anno prima della sua scomparsa. C’era un meeting Dunlop in Portogallo, si girava con diverse moto e lui fece una scappata di un’oretta come testimonial dei pneumatici inglesi. Me lo trovai all’improvviso accanto, in ascensore, saranno stati dieci secondi, dal terzo piano dell’hotel giù al piano terra. Un sorriso reciproco, neanche una parola. Io intimidito e lui, che passava per uno che dava poca confidenza, timido e basta. Sulla moto no, era sfrontato. Con quella Benelli 500 in prestito, a Monza pioveva, fece miracoli per tener testa ad Agostini sulla MV, fino a volar via alla staccata della Parabolica. L’immagine è passata tante volte in televisione: lui è davanti, perde l’avantreno prima di impostare la curva, e scivola via come un sasso piatto sull’acqua fino alla sabbia della via di fuga, sotto la tribuna. Si rialzò e sorrise al pubblico che lo acclamava allargando le braccia: «Ci ho provato». Quel simpatico che era Renzo Pasolini mi raccontò davanti a una pizza: «Alla partenza Mike è rimasto un po’ attardato, perché a spingere non era allenato; io mi metto dietro Ago, al curvone togliamo la sesta per la quinta, pelando un po’ perché sul bagnato si scivola tanto; lui ci passa all’esterno in sesta, forse anche in settima perché con la Benelli avevamo sette marce. La moto scodava da tutte le parti e lui teneva aperto. Una roba mai vista». In quel curvone, questa volta asciutto, Renzo sarebbe morto quattro anni più tardi. Con Jarno Saarinen. Quelli sono stati gli anni più terribili e luttuosi del motociclismo. Come ha fatto Hailwood, come del resto Ago, a passare indenne in mezzo a tanti incidenti mortali? Mike sembrava non temere nulla, pareva impostare ogni corsa sul coraggio puro, ma chi gli è stato vicino mi assicura che la ricetta del suo successo era un’altra: lui aveva un gran talento, una marcia in più di tutti gli altri, sapeva tenersi un certo margine e aveva passato il messaggio anche ad Agostini. Per questo Mike si stupiva dei record: faceva fatica a credere che guidando relativamente in sicurezza si potessero realizzare medie così alte al TT o altrove. C’è una foto che racconta tutto Hailwood, scattata a Spa nel luglio del 1967. Alla guida della sua Honda 500 numero 6, l’inglese guarda il fotografo Mick Woollett e fa una plateale smorfia di impotenza. Ago è in fuga con la MV e vincerà a oltre 211 di media, staccando Mike di oltre un minuto… «Questa moto non sta in strada!». Alla fine di quel 67, Hailwood provò a correre in auto. Un ritorno, in realtà, perché già nel biennio 63-64 aveva alternato le MV alle Lotus conquistando anche un punto a Montecarlo. Formula 5000 con la Lola, F2 con Surtees, ancora F1 con Surtees e McLaren, anche la 24 Ore di Le Mans. Nel 1973 ha ricevuto la George Medal per il coraggio dimostrato salvando Clay Ragazzoni dal rogo della sua vettura in Sudafrica. Andava forte? Mi dicono di sì, e nell’ultima stagione, con la McLaren, salì anche sul podio e fu due volte quarto prima dell’incidente del Nürburgring. Allora lui mollò tutto e si trasferì con la famiglia in Nuova Zelanda. Ma si annoiò moltissimo. Tornò per l’ultima impresa, forse la più bella perché proprio nessuno se l’aspettava. Zoppo, con la pancetta, all’anagrafe 37 anni, dieci di assenza dall’isola, l’intera fama da perdere e niente che gli importasse da guadagnare. Lui che aveva un piede in disordine e non sapeva neanche impennare, lontanissimo dalle nuove generazioni di piloti che avrebbe affrontato, si impegnava ancora sulle leggendarie 37 miglia virgola sette del Mountain, all’isola di Man dove aveva già vinto 13 volte. Per una semplice, banalissima soddisfazione personale. Mettendosi a dieta per mesi interi e rinunciando all’alcool. Disputò quattro corse in quel giugno 1978: la cosiddetta Formula 1 con la bicilindrica Ducati, la 500 e la Classic con la Yamaha/quattro a 2 tempi, la 250. Si ruppe l’ammortizzatore di sterzo nella 500, cedette l’albero motore nella Classic, fu soltanto dodicesimo con la 250 che gli servì per girare il più possibile, ma sulla Ducati costruì un vero miracolo. Andò così forte che Phil Read, che era scattato 50 secondi prima di lui sulla Honda ufficiale, per tenere il suo passo forzò il motore fino a farlo esplodere. Due ore di gara a 173 di media. Tra la gente che lo incitava urlando a ogni curva, e piangeva di gioia mentre si profilava la vittoria assoluta. Conoscete qualche altro pilota, tra quelli di ieri e quelli di oggi, capace di mettersi in gioco così a fondo, e poi vincere la sfida? A me ne viene in mente soltanto uno. Uno di oggi.