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 2009  agosto 13 Giovedì calendario

Kevin Schwantz Nei 60 anni di storia del Motomondiale, solo due sono i numeri a essere stati ritirati

Kevin Schwantz Nei 60 anni di storia del Motomondiale, solo due sono i numeri a essere stati ritirati. Uno è quel 74 che apparteneva a Daijiro Kato, tolto dall’elenco dopo che il campione 2001 della classe 250 perse la vita a causa dei traumi riportati nella gara MotoGP di Suzuka del 2003. L’altro è il 34 di Kevin Schwantz. Perché rendere a Schwantz, che in fondo vinse un solo titolo mondiale, un omaggio non riconosciuto a leggende come Giacomo Agostini e Wayne Rainey? Le ragioni sono numerose, ma una delle principali riguarda la forte popolarità di cui gode fra i fan delle corse. Se è vero che non si è mai potuto prevedere con certezza che il texano avrebbe vinto una gara - mentre conclusioni simili avrebbero potuto trarsi, a esempio, riguardo ad Agostini - non ci sono mai stati dubbi sul fatto che Schwantz avrebbe fatto uno show. Qualcosa che il pubblico ha apprezzato durante tutta la sua carriera e che, forse, apprezza ancora. «Credo di essere stato, ai tempi, fra quelli che hanno fatto di più per lo sport, in termini di pubbliche relazioni e visibilità» dice Schwantz quando gli chiediamo come mai gli sia stato riservato questo onore. «Il giorno che mi sono ritirato è stata dura e tale onore mi ha fatto pensare. Alla fine della giornata mi sono detto: ”Wow! Allora a qualcuno gliene frega davvero qualcosa di me!”». Probabilmente l’unica persona scontenta della decisione fu Andrea Dovizioso, che aveva il numero 34 nella 250 e tormenta Schwantz affinché gli permetta di usarlo da quando è salito nella MotoGP. Il motivo che rendeva così divertente seguire Schwantz era il suo entusiasmo contagioso per quello che faceva. Si ricorda ancora di quanto fosse emozionato la prima volta che si trovò a oltrepassare l’oceano, per il Transatlantic Match Races del 1986. «Ero giovane e mia madre, mio padre e mia sorella hanno fatto quel viaggio con me. Ero stato un paio di volte in California e in Colorado, poi all’improvviso ho partecipato a qualche gara di moto e qualcuno mi ha invitato in Gran Bretagna. Mi sono detto: ”Mi fanno arrivare in Inghilterra solo per andare in moto? Cavolo!”. Non mi sono neppure preoccupato del fatto che la moto fosse un catorcio o non andasse al meglio. Consideravo come un’opportunità qualsiasi cosa mi venisse proposta come pilota, pensando sempre alle possibilità di successo e non ai fallimenti. A un’opportunità per emergere». Forse, unico neo nello stile di Kevin è il fatto che non sempre ha saputo fare il suo interesse. Per sua stessa ammissione, sarebbe potuto arrivare più in alto, se solo fosse stato un po’ più calcolatore, riconoscendo che un arrivo sicuro è preferibile a una caduta. E si potrebbe riempire un libro intero con tutti le cadute che Kevin ha fatto sulla Suzuki 500 a due tempi. Ammette anche che la sua carriera, tormentata dai numerosi traumi, avrebbe potuto proseguire se aiutata dai dispositivi di sicurezza e dalle moto di oggi, più facili da controllare. Quando gli chiediamo di farci un elenco delle gare più memorabili, Kevin ricorda il primo e l’ultimo Grand Prix (rispettivamente Assen 86 e Suzuka 95), la prima e l’ultima vittoria (Suzuka 88 e Donington 94). Per quanto riguarda le altre 101 corse in cui ha gareggiato «c’è stato qualcosa di speciale in ognuna, che fosse la vittoria o la corsa in ambulanza verso l’ospedale» racconta ridendo. «Se tornassi indietro, rifarei tutto nello stesso modo, perché tutto nella mia carriera - gli amici, i fan, i viaggi e le persone che ho conosciuto - rappresenta quello grazie a cui vivo ancora oggi. Persino adesso, qualsiasi cosa faccio dipende dalle gare di moto». Già, Schwantz fa ancora parte del mondo delle corse. Mentre diversi campioni del passato, anche se della sua stessa statura, si rilassano o si concedono solo occasionali apparizioni pubbliche, Kevin è ancora impegnato nello sport. E anche se la sua posizione non è certo così in vista come quando lottava sui circuiti insieme ad altri giganti come Rainey ed Eddie Lawson, lascia ancora il segno in vari modi. IL PIFFERAIO MAGICO Lo stesso fascino con cui Schwantz ha conquistato, come pilota, i suoi fan, gli è tornato utile ora che la sua occupazione principale è quella di insegnante. Gira il mondo con la sua Schwantz Suzuki Schools e lavora inoltre con Suzuki in America, aiutando molti piloti emergenti (incluso Ben Spies). Quello che sembra amare maggiormente, però, è il suo nuovo ruolo da coach per la Red Bull AMA U.S. Rookies Cup, il campionato che ha l’ambizione di preparare i giovani piloti amatoriali ad affrontare una carriera da professionisti. Una volta gli americani dominavano le corse - Schwantz è stato pilota durante un decennio in cui i suoi connazionali hanno vinto quasi tutti i titoli - ma da allora lo sport ha progressivamente preso le distanze dall’impero made in Usa. Dal titolo di Schwantz nel 1993, solo due americani hanno vinto ancora (Kenny Roberts Jr nel 2000 e Nicky Hayden nel 2006). Un trend negativo a cui Kevin vuole rimediare col suo impegno nella Rookies Cup. «Dobbiamo capire perché non abbiamo più quelle quattro o cinque personalità tanto forti da guidare il campionato. Forse non abbiamo dato ai nostri piloti quelle opportunità di cui hanno bisogno: quello a cui lavoro è un progetto sorprendente da questo punto di vista». Alcuni dei ragazzi a cui insegna non erano ancora nati quando lui vinse il campionato, ma grazie alla sua fama ottiene la loro attenzione. Se per esempio avvisa un pilota di fare attenzione mentre dà gas all’ultimo giro di Laguna Seca, non lo fa tanto per dire, ma perché lì si è rotto il braccio quando correva. Nel documentario Faster, Schwantz afferma che «il 95 percento del successo dipende da quello che abbiamo tra le orecchie». Cioè la testa. «Non mi considero neanche lontanamente uno psicologo, ma credo che divertirsi possa portare al successo. Se sono un ragazzino e mi diverto, probabilmente arriverò più in alto. il divertimento a creare la velocità». Divertirsi non è però sempre facile quando si tratta di gare. L’estate scorsa il quattordicenne Toriano Wilson, che partecipava alla Rookies Cup, ha perso la vita in un incidente sulla pista Virginia International. Schwantz spiega di essere rimasto sorpreso dalla reazione dei compagni. «Hanno imparato la lezione. Ci siamo seduti a parlarne e il weekend successivo hanno preso tutti la moto e si sono divertiti. Non ci siamo dimenticati né quello che è successo né a chi è successo, ma questo è ciò che avrebbe voluto Toriano». IL RITORNO Uno degli aspetti che Schwantz apprezza di più dell’insegnamento è l’opportunità che ha di migliorare l’immagine del motociclismo negli Stati Uniti. I motociclisti americani tendono a considerare la loro moto come un bene di lusso, e la usano solo se c’è bel tempo, così i non piloti spesso non si appassionano allo sport. Schwantz ricorda i genitori dei suoi amici di infanzia, che lo hanno come emarginato perché suo padre aveva un negozio di moto. «Ho sempre pensato che, se ci fosse stato qualcosa che avrei potuto fare per cambiare l’immagine del motociclismo, mi ci sarei dedicato. Certo, non si potrà mai cambiare la mentalità di tutti, perché ci sono ancora un sacco di idioti là fuori che fanno gli acrobati in autostrada. Ma se riesco a raggiungere un piccolo gruppo ed essere per loro un insegnante, sia sul banco che in sella, credo di contribuire a migliorare l’immagine dello sport». Come molti americani, Schwantz è invidioso del fatto che in Europa la moto sia uno stile di vita. «Quando comprate una moto, non lo fate per guidarla solo qualche weekend. La usate per andare avanti e indietro, da casa al lavoro, ed è questo che fa del motociclista europeo un tipo così diverso da quello americano». Schwantz viene regolarmente in Europa, sia per insegnare nelle scuole sia per seguire la MotoGP. La scorsa stagione ha accompagnato Spies nelle sue partecipazioni wild card col team Suzuki e ha lavorato come cronista di alcune gare per un canale americano. In futuro spera di diventare team manager. Magari della Suzuki, con la quale ha trascorso tutta la sua carriera personale. «Ho sempre pensato che quelli della Suzuki siano i migliori produttori nel campo della meccanica» insiste, aggiungendo che parte della mancanza di successi è stata colpa dei piloti, lui stesso incluso. «Nell’89, se ci fosse stato qualcuno in sella a parte quello stupido punk che ero, avremmo vinto quel titolo. Quella moto è arrivata sul podio 12 volte e credo di essere stato in testa a dieci o 11 dei 15 Grand Prix. Ne ho vinti sei, sono crollato in tre e uscito da tre». La lunga permanenza di Schwantz alla Suzuki non è stata segnata solo da momenti di lealtà. Nell’89 firmò una lettera di intenti per passare alla scuderia della Marlboro Yamaha di Agostini, a condizione che ricevesse lo stesso supporto del team di Kenny Roberts. Ma alla fine l’affare saltò. Schwantz ha anche cercato di indossare la tuta della Honda del famoso Erv Kanemoto a fine 91, ma l’accordo andò in fumo per mancanza di fondi. E oggi è pronto a rivolgersi a un’altra squadra se Suzuki non lo metterà a capo del team MotoGP. Assumere il controllo di Suzuki significherebbe rimpiazzare il manager attuale, Paul Denning, che Schwantz non reputa sufficientemente capace di creare quella motivazione necessaria all’azienda per tornare al top. E se l’offerta non arriverà a breve, Kevin potrebbe non essere più interessato. «Alla mia età, non so proprio come possa aver voglia di girare il mondo per 18 gare l’anno. Non credo sia qualcosa di desiderabile in sé, solo che dopo due settimane a casa mi annoio a morte. Non credo che viaggiare mi faccia più quell’effetto che mi dava al tempo delle corse, e probabilmente lo sopporto meglio. Salgo sull’aereo e faccio più attenzione a ciò che accade, forse sono più maturo». Quest’ultima affermazione suscita qualche smorfia e alcune risate divertite in un paio di collaboratori della Rookies Cup. Kevin sorride imbarazzato. E precisa: «Ho detto forse…». La verità è che Schwantz non crescerà mai del tutto. Ancora non si è sposato, e anche se il pensionamento sarebbe possibile, il posto in cui preferisce stare sono ancora le corse. QUESTI DUE SONO SIMILI Se tutto questo vi ricorda di un certo pilota di oggi, non è una coincidenza: l’eroe dello Schwantz emergente era il pilota playboy inglese Barry Sheene. L’idolo del più forte di oggi, Valentino Rossi, è proprio Schwantz. E i due sono amici. Kevin ha incontrato Rossi per la prima volta al GP di Misano dell’89, dove l’artista dei caschi Aldo Drudi insistette per fargli conoscere il figlio di un amico comune, Graziano Rossi, mentre gareggiava in una corsa di minibike. «Ricordo che guardavo i ragazzi che passavano e sembrava che Valentino andasse a velocità doppia» racconta oggi Kevin. «Di solito, anche se uno va veloce, fai caso solo alla pista, ma lui si distingueva! La scioltezza e la sua velocità erano palesi a chiunque in tribuna». Dopo la corsa, Drudi presentò Kevin a Vale, che durante la gara indossava una copia del casco di Schwantz. I due andarono subito d’accordo. «Era un ragazzo così entusiasta, alto e magro» dice Kevin. «Parlava di moto, moto e moto. così che, di solito, cominciano i piloti migliori». Ora Rossi ha dimostrato di essere uno dei migliori, forse il migliore in assoluto, e non stupirebbe se il terzo numero a essere rimosso dalle corse fosse il 46. A ogni modo, Schwantz è sorpreso da quanto Valentino sia rimasto simile al ragazzo magrolino che gli aveva dato la mano alla gara di minibike. Il fatto che Rossi viva come una rockstar lascia un po’ sorpreso Schwantz, probabilmente il più famoso dei piloti della sua epoca, che però al di fuori dei circuiti riusciva a fare una vita tutto sommato normale. Ma, se riesce a passare quasi inosservato in America, Kevin ha un suo seguito in Europa. «Se atterro in città come Francoforte, Milano o Barcellona, di solito il tizio che controlla i passaporti dice: ”Kevin Schwantz! un piacere vederla”. Mi colpisce che in Europa il motociclismo sia considerato un vero sport, diversamente dall’America dove si parla solo di baseball, basket, football americano o delle corse della NASCAR». La casa di Schwantz, però, è ancora ad Austin, in Texas, anche se non ci passa molto tempo («Qui mi faccio spedire le bollette»). La sua scuola lo ha impegnato in 12 tappe nel 2008 e almeno altri 15 weekend sono dedicati alla Federazione Motociclistica Statunitense e alle prove della Rookies Cup. Se si aggiunge qualche gara di MotoGP, non gli rimane molto tempo libero. Per fortuna, Kevin segue il suo stesso consiglio, e si diverte. « un lavoro duro, ma amo quello che faccio. Ora, la mia vita va meglio che mai, questo è sicuro». Kevin ci pensa su un secondo o due prima di correggersi: «Be’, se non considero il 93». (Traduzione di Marco Canani)