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 2009  agosto 13 Giovedì calendario

UNA NOTTE D’AMORE (A 95 ANNI)

Corriere della Sera, giovedì 13 agosto 2009
Caro direttore, che dire di un uomo di novantacinque anni trovato nella notte nel suo letto abbracciato a una ragazza di 30 anni, che lo assiste? Che non merita ironie e rimproveri, ma sguardi delicati e tenere carezze. Vi parlo di un uomo che sente e vede la sua vita sempre meno e non solo per l’udito sordo e la cecità incipiente.
Ma anche perché la sente allontanarsi giorno dopo giorno e compie a senso alter­no i suoi esorcismi e le sue rese. E una notte, la temuta notte, lo trovano avvinghiato alla più giovane, alla più avvenente delle sue ba­danti. Lei che spiega con disagio e meravi­glia: non so cosa gli ha preso stanotte, non l’aveva mai fatto; lui scoperto dalla figlia che finge sorpresa e mostra torpore o forse il contrario. Di solito la notte si lamenta, dà vo­ce per avere voce, come una sentinella sul­l’orlo del nulla che vede ombre di tartari al­l’orizzonte; chiede più volte di orinare, sarà la prostata, sarà il terrore della solitudine notturna; si alza, sospira, chiama la figlia, poi la badante, infine chiama la morte. Vive la sua morte ogni giorno, la invoca e la teme, spavaldo per spavento. Vuol provare la sua presenza con la petulanza, vuol scacciare l’as­senza, farsi vivo. Allestisce cerimonie nottur­ne di egoismo per dimostrare che esiste, e vuol essere al centro del suo piccolo univer­so, mescolando teatro ad agonia. Ma quella era una notte tiepida d’agosto, c’era la luna piena, l’aria era calda e leggera e la sua dol­cezza non escludeva nessuno, neanche i vec­chi. E così le ha chiesto di entrare nel suo letto matrimoniale, di mettersi al suo fian­co, e l’ha cinta in un abbraccio, ha cercato pure la sua bocca. Il giorno dopo diceva di non voler più avere come badante quella ra­gazza, come se fosse stato molestato lui o co­me se si vergognasse per l’accaduto e voles­se cancellare la prova vivente del misfatto; o forse no, quella richiesta è un capriccio e una vendetta, s’aspettava qualcosa in più da lei, un bacio, una carezza, un soffio di com­plicità.
Facile sorridere, facile deprecare. Si è be­vuto il cervello, che figura. Io invece ti capi­sco, padre, ti capisco. Non oso spiegare con la demenza senile il suo fittizio disperato am­plesso, quel sussulto di giovinezza misto a carenza antica di maternità. In quell’abbrac­cio c’era il ragazzo di una volta, c’era l’uomo, ma c’era anche il bambino. Si cumulavano in quel gesto tante età. C’erano i vent’anni dei suoi primi amori, c’erano i settant’anni dei suoi ultimi amplessi, c’erano gli abbracci infantili dei tre anni. E c’era la somma esatta di quelle età, che tutte le abbracciava, insie­me alle loro pulsioni e al loro ricordo sfatto. Quel bisogno di sentirsi ancora un corpo e non una malattia, di sentire la vita e non so­lo la sua evanescenza. Una vita che sbiadisce e cerca occasioni estreme e furtive, come la­dri nella notte. Forse c’è la rivalsa involonta­ria contro la gioventù; tu nipote esci quando io vado a letto, per una volta torni a notte fonda e mi trovi sveglio che abbraccio una donna, perché la vita riguarda pure me, non vegeto soltanto. Nella vita ho ancora permes­so di soggiorno e so che il letto non serve solo per il sonno e l’infermità.
Però fa male vedere la dignità di un uomo ridotta in vecchiaia a mendicare un bacio. Ti trattano come un ingombro, occasionali ba­danti ti danno del tu e ti riducono a pacco, bimbo demente, ti scansano i più giovani. Come finisce male una vita longeva, in quale imbuto. La sua sobrietà di preside del liceo, di studioso di filosofia, di educatore, finita nei gesti estremi del suo mangiare con la te­sta nel piatto, nel suo digerire senza riguar­di, nel suo spogliarsi senza ritegno. Lo capi­sco quando se la prende col suo medico che col pace maker gli ha prolungato una vita che reputa ormai di troppo. Vorrei finire an­ch’io prima della notte; capisco le sue invoca­zioni di congedi, la vita sarà un valore ma se vissuta con dignità. Altrimenti è sopravviven­za animale che cancella in un’appendice ver­gognosa biografie operose e rispettabili.
E pure l’ho immaginato quella notte nella sua vecchia camera da letto, con i morti tutti a vegliare sul comò, madri, padri, moglie e santi, con un lumino acceso moltiplicato per tre volte da altrettanti specchi ed un letto ma­trimoniale da tempo dimezzato, abitato da un ingombrante vuoto. L’ho immaginato lì, tra le sue lenzuola sfatte, i suoi orinali intor­no, qualche feticcio estremo di vita, come la radio, la sveglia sul comodino e le caramelle all’orzo. Ed un Sacro Cuore che esplode sul suo letto, un Cristo che si sporge con la testa e con la mano benedicente, e si affaccia qua­si sul suo letto a curiosare. L’ho immaginato lì, a far l’amore con la vita, a salutare il passa­to con l’ultimo sorso rimasto nel presente, a far capire alla badante che lui non è vecchio da sempre; ma fu ragazzo e anche bel ragaz­zo, amò e fu amato. Voleva lasciar traccia di sé e cercava trasfusioni estreme di vita da una ragazza florida. Trovo commovente quel­l’abbraccio di una persona che reclama del­l’amore non il frutto ma almeno il torsolo. Te­nera è la notte, tenerissima per un vecchio in cerca di resistere alla notte.
Marcello Veneziani