Marco Valsania, Il Sole-24 Ore 12/8/2009;, 12 agosto 2009
LA REGINA GOLDMAN CERCA CONSENSI
Quando il gruppo editoriale del New York Times ha deciso di mettere in vendita il Boston Globe e il Worcester Telegram & Gazett ha chiamato, per consultazioni, Goldman Sachs. Del resto Goldman sta già assistendo il Times nella ricerca d’un acquirente per la quota di minoranza che detiene nella squadra di baseball dei Boston Red Sox.
Tutto come prima dunque, anzi meglio di prima, per la prestigiosa banca d’affari. Nell’investment banking come nelle contrattazioni. E nei lauti compensi. La crisi assedia ancora molte finanziarie americane soccorse dal governo. Non Goldman Sachs: restituiti gli aiuti pubblici ricevuti nel momento più buio, ha ripreso a macinare profitti (3,4 miliardi nel secondo trimestre) e ricavi record (46 giornate tra aprile e giugno con oltre cento milioni nel trading). I suoi uomini d’oro, guidati dal 54enne amministratore delegato Lloyd Blankfein, quest’anno dovrebbero nuovamente aggiudicarsi bonus senza pari. E regnano, semmai più indisturbati di prima, su un settore decimato: sono sparite per sempre vecchie temibili concorrenti quali Bear Stearns e Lehman Brothers e una terza, la più grande, Merrill Lynch, è stata assorbita da Bank of America.
Ma le prodezze di Goldman non convincono tutti. Sono davvero, i loro executive e i loro trader, i loro banchieri e i loro ana-listi, in tutto e per tutto i primi della classe? Oppure le loro performance stellari celano troppe amicizie potenti, troppe facilitazioni da parte delle autorità. E strategie troppo rischiose mentre è ancora fresca la memoria del baratro economico scavato dall’ingordigia dell’alta finanza? Il problema d’immagine, per Goldman, traspare da un recente sondaggio commissionato dal Financial Times sui marchi statunitensi: nella finanza il più rispettato oggi non è Goldman, bensì l’avversario "sopravvissuto" Morgan Stanley. Goldman soffre della sindrome di "Gordon Gekko", lo spregiudicato protagonista di Wall Street, film degli anni Ottanta buono per tutte le stagioni degli eccessi.
Le polemiche si colorano di aneddoti: risuona ancora la lunga, inopportuna risata di Blankfein durante un premio alla letteratura economica nei giorni peggiori della bufera sui mercati. «Forse sa qualcosa che altri non sanno», scherzò allora un altro celebre partecipante alla giuria, il chief exective di Ibm Sam Palmisano. Oppure le telefonate disperate di Dick Fuld, capo di Lehman, che accusò gli operatori di Goldman di vendere aggressivamente "short" il suo titolo, provocando gli iniziali crolli del valore in borsa. O ancora, agli albori della crisi, nella primavera del 2007, di aver collocato fra il pubblico pacchetti di fragilissimi derivati legati ai mutui subprime per poi scommettere subito dopo contro di loro. Fa tutt’ora discutere l’articolo dedicato a Goldman da una rivista insolita per le inchieste finanziarie, Rolling Stones: Matt Taibbi ha descritto Goldman come «una piovra avvinghiata al volto dell’umanita», protagonista di ogni bolla speculativa dell’ultimo secolo. Un’immagine ridicolizzata dagli alfieri della banca ma che rispecchia malumori diffusi. New York Magazine ha raccolto il dibattito: «Malvagi o bravissimi?», ha titolato. L’ultima accusa, durissima, è del New York Times: l’ex segretario al Tesoro ed ex capo di Goldman Henry Paulson, nel periodo più difficile per la finanza, a settembre dell’anno scorso, si è sentito al telefono molto più spesso con il suo ex collega e successore Blankfein che con altri banchieri. Il quotidiano ha verificato tutte le telefonate e le date delle conversazioni più serrate coincidono con l’erogazione da parte del Tesoro di decine di miliardi di dollari al gruppo assicurativo Aig sull’orlo del fallimento. Una parte dei fondi offerti a Aig, secondo alcuni calcoli 6 miliardi, servirono subito dopo per coprire al 100% i CDS (Credit Default Swaps, vere e proprie polizze d’assicurazione contro la possibilità di perdite finanziarie) che Goldman aveva sottoscritto con Aig per proteggersi da rischi di trading. Paulson ha dichiarato al Congresso di aver ottenuto un esonero dall’amministrazione davanti al pericolo di conflitti di interesse. Ma questa dispensa arrivò solo alcuni giorni dopo le prime telefonate con Blankfein. E il rapporto Blankfein-Paulson minaccia di diventare il dossier più recente nel mirino dello staff del Parlamento.
Goldman, incalzano i critici, gode oggi d’una licenza speciale: un’implicita "protezione" federale che le consente di scorrazzare nuovamente e liberamente sui mercati. Tutti, in mezzo a crack e salvataggi, l’hanno sempre considerata troppo importante per fallire. Una garanzia costata poco: per sfuggire alla crisi si è trasformata in tradizionale holding bancaria, ha rafforzato il suo capitale, ridotto la leva finanziaria e accettato, sulla carta, maggior supervisione. Ma questo non ha finora comportato rivoluzioni nella gestione, che resta aggressiva. Come dimostrano le misure dei rischi corsi: il value at risk, la perdita potenziale in ogni giornata, nel secondo trimestre è lievitato a 245 milioni, contro i 184 del 2008. E i derivati classificati "Level 3", quelli impossibili da valutare, sono aumentati a 15 miliardi da 12,2 miliardi tra marzo e giugno. Goldman, oltretutto, se ha restituito dieci miliardi di aiuti governativi diretti, ha emesso oltre 25 miliardi di titoli servendosi di garanzie messe a disposizione da agenzie federali.
La banca resta anche nel mirino di altre possibili inchieste. Dalle autorità di vigilanza ha ricevuto richieste di informazioni sulle pratiche di compensi. Soltanto nella prima metà dell’anno ha stanziato oltre 11,3 miliardi per premi, già suffcienti a staccare a ogni dipendente in media un assegno da quasi 400.000 dollari. Più azionisti, in lettere al board, hanno a loro volta sollevato perplessità sui compensi, passati e presenti, mostrando scarsa fiducia nelle promesse di riforma del management. E sotto osservazione sono finiti anche suoi sofisticati strumenti finanziari, quali i derivati nel credito.
Goldman, di sicuro, si è meritata la fama di banca d’eccezione, fucina per eccellenza di grandi banchieri e politici di primo piano, in America e nel mondo. Tra i suoi ex dirigenti vanta due recenti Segretari al Tesoro americani, il democratico Robert Rubin oltre al repubblicano Paulson. Blankfein, che vive in una penthouse su Central Park da 26 milioni di dollari, ha preso il posto di quest’ultimo nel 2006 e l’anno successivo, al suo apogeo, ha intascato quasi 70 milioni. Con altrettanta certezza Blankfein e i suoi più stretti collaboratori sono adesso coscienti, nonostante i nuovi successi, del clima infuocato. Uno dei partner, il 52enne John Rogers con una lunga carriera fuori e dentro il governo da Ronald Reagan in poi, ha dichiarato a New York Magazine che Goldman «non può permettersi» di ignorare l’opinione pubblica. E la banca è passata, con piccoli e grandi passi, al contrattacco: Blankfein ha avvertito tutti i dipendenti di evitare acquisti vistosi (nel senso dello shopping personale). Mentre i suoi executive hanno offerto proprio al Times uno sguardo - raro per una societaà da sempre estremamente schiva - alle loro strategie: con toni rassicuranti il 48enne direttore generale Gary Cohn ha sostenuto che, in realtà, Goldman non è mai stata «sull’orlo dell’abisso». Ha ammesso che nel gruppo «l’appetito per il rischio continua a crescere ». Ma il direttore finanziario, il veterano di Goldman David Viniar, si è affrettato a precisare che se alcune divisioni prendono alcuni rischi in più, «la gran parte li ha ridotti». Negli ultimi mesi, in maggior dettaglio, gli executive di Goldman hanno scommesso correttamente su un recupero di stabilità dei mercati e su una ripresa anche dei titoli tossici. Hanno potuto contare sulla sottoscrizione titoli, grazie alle molte società impegnate a rafforzare il capitale. E hanno generato utili gestendo investimenti di clienti istituzionali; il trading per proprio conto è invece diminuito al 10% dal 20% dei profitti totali. Nel descrivere la Goldman post-crisi, però, Cohn ha involontariamente alimentato il dibattito sulle sue prodezze: ha detto che la banca non ha bisogno di colpi di genio. Non è tenuta, ha detto, a «battere il mercato ». Le basta «fare ciò che i clienti chiedono».