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 2009  agosto 11 Martedì calendario

PIRATI SOMALI UN BUSINESS DOMANDE E RISPOSTE


Chi sono i pirati somali?
Sono pescatori con grande esperienza di mare e giovani reclutati tra le milizie dei clan e addestrati a maneggiare mitragliatrici e lanciagranate. Secondo la società di sicurezza Ake, che gestisce i sequestri per conto di diverse compagnie marittime, sono raggruppati in una quindicina di bande. Non hanno nulla in comune con i pirati della Tortuga, applicano al mare il modello della criminalità organizzata globalizzata. Non sono interessati al carico, la loro attività è il sequestro di persona per ottenere un riscatto.
Dove sono le loro basi?
La principale è a Eyl, un piccolo porto del Puntland, una regione della Somalia nord-orientale, nelle zona del Corno d’Africa, i cui leader nel 1998 hanno dichiarato l’autonomia dalla Somalia. Lungo tutta quella costa si è creato un indotto fatto di intermediatori e negoziatori, venditori di carburante, mercanti che riforniscono di cibo le barche, tecnici che forniscono e insegnano a usare tutti i più moderni sistemi di navigazione per attaccare e portare a riva le navi sequestrate.
Come vengono individuate le navi da assaltare?
Non è difficile individuare portacontainer e petroliere, sulle grandi autostrade marittime viaggia l’80 per cento delle merci. Con un sistema di informatori nei porti, vengono selezionati i carichi più ricchi e le navi meno difese. E con i gps ne viene seguita la rotta fino alla zona considerata ottimale per l’arrembaggio.
Come agiscono i pirati?
Una nave appoggio li porta a qualche miglio dalla nave da assaltare, alla quale si avvicinano con velocissimi barchini. Quando sono a un centinaio di metri cominciano a sparare. L’arrembaggio avviene con scalette di corda armate di rampini, agganciate alla fiancata della nave. Una volta saliti, i pirati contano i membri dell’equipaggio e controllano la loro nazionalità e il carico. Poi chiedono al capitano di telefonare alla compagnia per informarla che la nave è stata sequestrata e che i pirati se la terranno finché non sarà pagato un riscatto.
E’ ipotizzabile che una nave venga liberata senza esborso di denaro?
No, i pirati non se ne vanno gratis. E i soldi devono essere in contanti. Il denaro viene portato in sacchi sulla nave e contato biglietto per biglietto. Se i conti tornano, la nave è libera di riprendere il suo viaggio e i pirati tornano a Eyl, dove avviene la divisione del bottino. Circa un quinto viene dato a chi ha finanziato la missione, il resto diviso tra la comunità. Si stima che nel 2008 i pirati del Golfo di Aden abbiano guadagnato 150 milioni di dollari. La cifra dipende dal valore del carico, per le grandi petroliere si sborsano anche 4 milioni.
Come si difendono le singole navi?
Esistono società che offrono programmi di protezione. Per primi si sono mossi gli inglesi, poi sono arrivati gli altri. Utilizzano armi non letali affidate a personale specializzato: dissuasori acustici che colpiscono l’udito fino a far male, cannoni ad acqua, oggetti pesanti da lanciare nei punti giusti sulle barche dei pirati per farle rovesciare. Si possono poi elettrificare i parapetti o blindare le porte d’accesso all’interno dell’imbarcazione. Per i giorni di navigazione nelle acque pericolose si fanno salire a bordo uomini armati: per quattro giorni costano intorno ai quattromila euro. Ma molte compagnie di trasporto marittimo hanno semplicemente cambiato rotta, tornando su quella individuata da Vasco de Gama nel 1498, che circumnaviga l’Africa.
Perché il fenomeno è esploso negli ultimi anni?
Con la fine della guerra fredda è cessato sui mari il controllo da parte delle due superpotenze. La pirateria ha sfruttato questo vuoto di potere. Fino ai primi Anni 2000 il 42 per cento degli attacchi pirati avveniva nello Stretto di Malacca, un corridoio di 800 chilometri che separa l’Indonesia dalla Malesia. Ora il primato spetta al Golfo di Aden.
E’ servito il pattugliamento internazionale?
L’area da difendere è ampia, sono circa 2,5 milioni di chilometri quadrati. Lì da mesi incrociano navi da guerra di 19 Paesi (Italia, Spagna, Germania, Francia, Danimarca, Portogallo, Grecia, Stati Uniti, Belgio, Olanda, Canada, Cina, Iran, Corea del Sud, Svezia, Giappone, Gran Bretagna, India, Russia), organizzate nelle due missioni, la Task Force 151 a guida Usa e «Atalanta» a guida Ue. Ma i pirati, messi in difficoltà nel Golfo di Aden, si stanno spostando verso la costa orientale, dove i casi sono in aumento.
Esiste un diritto a difendersi dalla pirateria?
Sì. La Convenzione Onu sul Diritto del Mare del 1982 autorizza a inseguire le navi fin dentro le acque territoriali e a distruggere i covi sulla terraferma. Finora però è mancata la volontà politica di applicarla, anche per la poca chiarezza sulla sorte processuale dei pirati catturati.