Mauro Bottarelli, il Riformista 12/8/2009, 12 agosto 2009
LA CINA ATTACCA IL DOLLARO
Londra. Per ora la notizia nella City ha suscitato attenzione ma non ancora panico. Ma qualcosa si sta muovendo negli scenari mondiali e tra i blocchi di potenze travolte in varia maniera dalla crisi economica. La Cina, infatti, sta stringendo patti bilaterali con tutti i paesi asiatici - Giappone escluso - per indicizzare in renmibi gli scambi commerciali e i flussi sui mercati ora indicizzati in dollari. Una fonte di Pechino citata dal Financial Times ha ammesso che «lo facciamo per non cadere nella "dollar trap"», la trappola del dollaro che colpisce quei paesi che non hanno una valuta, per così dire, internazionale. Entro il 2012 saranno stretti accordi e compiuti scambi per un controvalore di 2 trilioni di dollari tutti indicizzati in renmibi, una scelta dettata anche dalla volontà di Pechino di utilizzare Hong Kong come ariete per detronizzare Shanghai e divenire la "City d’Oriente". Pechino punta a monopolizzare il mercato delle materie prime e soprattutto i rapporti con i paesi emergenti. Tanto per far capire che fa sul serio ha già siglato accordi di swap valutario con Corea, Malaysia, Indonesia, Bielorussia e Argentina per un controvalore di 650 miliardi di renmibi, circa 67 miliardi di dollari.
La Cina ha selezionato cinque città - che rappresentano il 45 per cento del commercio estero nazionale - che possono trattare in renmibi con Hong Kong e Macao. Ma perché una mossa simile, capace certamente di irritare e non poco gli Usa, costretta a fare buon viso a cattivo gioco visto che Pechino è il più grande detentore dello spaventoso debito Usa? Perché la Cina non solo non trascinerà il mondo verso la ripresa ma anzi sta pagando a caro prezzo la politica scelta dalla Banca centrale di rendere più semplice e accessibile il credito. Occorre, insomma, trovare strade alternative. Da Pechino è infatti giunta la richiesta agli istituti affinché controllino che il credito che hanno offerto in eccesso, qualcosa come 1.080 miliardi di dollari nel primo semestre dell’anno, vada verso l’economia reale e non a creare bolle in asset nei mercati dell’equity e del real estate: troppo tardi, le bolle si sono già formate e purtroppo non ci metteranno molto a gonfiarsi a dismisura. Inoltre questa enorme, ennesima massa di prestito emessa nel dicembre scorso sta ingolfando il sistema bancario, incapace di gestire quel quantitativo di denaro che infatti viene stoccato come reserve a Shanghai o utilizzato - come già
ditto - per mantenere artificialmente in vita il settore della costruzioni, devastato dalla crisi. Per l’agenzia di rating Fitch «le future perdite subordinate allo stimolo messo in atto dalle autorità governative potrebbero essere maggiori del previsto e non è affatto chiaro come i governi locali e nazionali saranno in grado di, o vorranno, intervenire». Linguaggio da agenzia di rating che si traduce però nel downgrading della Cina da categoria 1 (sicura) a categoria 3 (dove giace, per capirci, la fallita Islanda). Non è un caso che la scorsa settimana - esattamente come il 26 febbraio 2007, data di inizio della crisi reale - sia risuonato lo "Shanghai surprise", ovvero un inatteso crollo dell’indice Shanghai Composite. Due anni fa, dopo mesi di rally, crollò di colpo di 268 punti, ovvero dell’8,8 per cento, la scorsa settimana di 265, ovvero il 7,7 per cento. La Cina langue e cerca di sfuggire all’abbraccio mortale dell’abbraccio forzato con il dollaro. Nella città di Dongguan, roccaforte dell’export e capace di battere per volumi esportati l’intero Vietnam, le esportazioni sono crollate del 24 per cento e si è perso il 10 per cento dei posti di lavoro, 630mila unità. Unite a questo I falsi dati che Pechino fornisce sulla crescita - quelle centrali da quelli che giungono dale province sono discrepanti del 15 per cento e oltre - e avrete il quadro preciso. Per questo, a Londra, si guarda con attenzione alle prossime mosse. Mentre a Washington imperano preoccupazione mista a rabbia.