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 2009  agosto 06 Giovedì calendario

PIERGIORGIO ODIFREDDI

Se l´architettura è l´arte dell´edificare, e la decostruzione la scienza dello smantellare, l´«architettura decostruzionista» dovrebbe essere un ossimoro. Il che non ha impedito che essa abbia potuto essere concepita da due enfants terribles quali Peter Eisenman e Jacques Derrida, ed esibita a New York nel 1988 all´insegna del motto: «architettura senza geometria». Non sorprendentemente, i progetti che Eisenman ha realizzato in un´ormai quarantennale carriera hanno sollevato discussioni e polemiche tra gli esperti, e causato stupore e disorientamento nel pubblico. Ma la loro varietà e originalità impedisce di incasellarne facilmente l´autore in una classificazione.
Eisenman, comincerei dal 1967: l´anno della mostra al MoMa con quelli che divennero noti come The New York Five.
« una storia complicata e piena di equivoci. I New York Five non sono mai esistiti. Fin dal 1964 avevamo un gruppo che si faceva chiamare CASE, un acronimo per Conference of Architecture and the Study of the Environment, di cui erano membri Michael Graves e Richard Meyer, che poi fecero parte dei Five. Uno degli incontri del gruppo ebbe luogo al MoMa nel 1967: ma non ci fu una mostra, bensì un convegno per analizzare i lavori di cinque architetti, che, oltre ai due citati e me, erano John Hejduk e Charles Gwathmey. In seguito, raccolsi le registrazioni delle conferenze, ma si decise che un titolo non poteva rappresentarci tutti: così scrivemmo solo i nostri nomi sulla copertina».
In altre parole, il libro non aveva nessun titolo?
«Sul dorso, per brevità, c´era scritto Five Architects, senza l´articolo determinativo "the". Ma il New York Times ne parlò come The Five, e diventammo un gruppo senza saperlo: come tale partecipammo alla Triennale di Milano di Aldo Rossi nel 1973 e nel 1976 Manfredo Tafuri allestì una mostra a Napoli su di noi dal titolo "The New York Five"».
Ma non c´era qualcosa che vi univa?
«Non direi. Ciascuno poi andò per la sua strada».
La sua quale fu?
«Tutti i miei progetti erano di natura diagrammatica. Non a caso la mia tesi di dottorato a Cambridge del 1963 si intitolava La base formale dell´architettura moderna (Pendragon, 2009), e venne prima di Complessità e contraddizione nell´architettura di Robert Venturi (1966), prima di L´architettura della città di Aldo Rossi (1966), prima di Teorie e storia dell´architettura di Tafuri (1968)».
Cosa fece, in quella tesi?
«Cercai di elaborare l´istanza tradizionale del formale utilizzando analogie linguistiche: in fondo, la mia opera ha sempre indagato il problema dell´analogia tra linguaggio ed architettura. Ma non nel senso delle "architetture parlanti" di Le Corbusier, piuttosto, nella direzione di ciò che si potrebbe definire linguistica strutturale, e questo prima ancora di conoscere Derrida. I miei modelli erano strutturalisti come Roman Jakobson e Roland Barthes».
Veniamo ad alcuni suoi progetti di quegli anni: la House VI, ad esempio.
«Fu un progetto del 1968, che poi realizzai in tre anni dal 1972 al 1975. L´idea era di mettere in dubbio il concetto che il piano orizzontale debba per forza essere il fondamento di una casa. In quel progetto l´elemento pervasivo è diagonale, il che rende la casa più topologica che euclidea: naturalmente, se si continua a guardarla con un occhio euclideo, non sembra avere alcun senso. Mentre dal punto di vista topologico la casa è perfettamente simmetrica, solo che l´asse di simmetria non è né orizzontale né verticale, ma obliquo. Anche i colori seguono regole topologiche, ad esempio le scale sono verdi o rosse a seconda della direzione in cui vanno».
Ma chi mai vivrebbe in una casa simile?
«Le persone che ci hanno vissuto la amano ancora. Anzi, la adorano!»
 sicuro? Credevo che avessero scritto un libro molto critico, al proposito.
«Hanno scritto un libro, intitolato La risposta del cliente, ma non mi sembra così critico».
Non è critico dire che lei, oltre a mandarli in bolletta, ha pure piazzato un pilastro nel bel mezzo della camera da letto? Anzi, del letto stesso?
«Dovrebbe vederla con i suoi occhi, perché a parole è difficile capire cos´è quella casa».
Ho letto che si basa su vari cubi intersecati.
«All´inizio sono partito da nove cubi, disposti tre per tre su un piano orizzontale, ma in seguito ho aggiunto altri due livelli, e i cubi sono diventati ventisette. Poi li ho distorti e intersecati, mantenendo però un asse di simmetria che va da un vertice in un angolo in basso al vertice nell´angolo opposto in alto. E tutta una serie di altri procedimenti che ho spiegato nel libro Castelli di carte, con una prefazione di Tafuri».
Ma lei ci vivrebbe, in una casa del genere?
«Io no! Non vivrei in nessuna delle case che progetto».
Che mi dice del suo recente Memoriale per gli ebrei assassinati d´Europa a Berlino e della reazione che ha suscitato?
«Io posso parlare del progetto, ma non della reazione della gente: non realizzo le mie opere preoccupandomi di cosa ne dirà il pubblico, così come James Joyce non scriveva Finnegans´ Wake preoccupandosi delle reazioni dei lettori».
Il caso del suo Memoriale è un po´ più delicato.
«Giorgio Agamben ha scritto un articolo interessante, riguardo al fatto che molti lo adorino e altrettanti lo disprezzino. Alcuni lo ritengono troppo astratto o freddo, ma avrebbero forse preferito un ambiente caldo ed accogliente come ricordo dell´Olocausto?»
Un altro dei suoi lavori più recenti è Il giardino dei passi perduti di Verona. Quanto profonda è l´assonanza con Il giardino dei sentieri che si biforcano di Jorge Luis Borges?
«L´ho letto, naturalmente, ed è stato il mio punto di partenza. Ma i "passi perduti" sono anche un luogo importante nell´architettura accademica francese: la Salle des Passes Perdues è il luogo dove ci si ritrova ad aspettare prima di essere ricevuti dal presidente o dal re, un luogo dove nulla accade oltre l´attesa».
In che relazione si è posto con Carlo Scarpa, che aveva concepito il museo della fortezza di Castelvecchio a Verona, dove lei ha piazzato il suo giardino?
«Ho cercato di non interagire: mi avevano chiesto di fare un´installazione nel palazzo del museo, ma io ho preferito utilizzare il cortile. E ho richiamato i pavimenti delle cinque sale in sequenza del piano terra, ma sfalsandone l´asse rispetto a quello originale di Scarpa: in questo modo ho appunto ottenuto i sentieri che si biforcano».
Sempre a proposito di interazioni con l´architettura italiana, lei ha pubblicato qualche anno fa Giuseppe Terragni: trasformazioni, scomposizioni, critiche (Quodlibet). Come si è interessato a lui?
«Ricordo che stavo a Cambridge per il mio dottorato, e dopo un viaggio a Como un mio compagno mi disse: "Ho avuto una vera rivelazione, là. Ho visto qualcosa che non avevo mai visto prima". E quando arrivò il momento di lavorare alla mia tesi, passai tutta l´estate a Como a far ricerche su Terragni. Ma non fu facile, perché Terragni era stato fascista, e agli inizi degli anni Sessanta c´era una congiura del silenzio su di lui. I comunisti e Tafuri furono i primi capaci di studiare il lavoro di Terragni».
Anche lei era comunista?
«Io no, ma tutti i miei amici lo erano, da Rossi a Cacciari».
E oggi, come si qualificherebbe politicamente?
«Guardi, a me non importa trattare con uno di destra o di sinistra, purché sia una persona decisa e in grado di decidere. Io sono letteralmente un repubblicano, e non un democratico, perchè la repubblica elegge i suoi capi e delega a loro le decisioni, mentre la democrazia decide direttamente attraverso le assemblee. E certamente nessuna architettura forte può uscire dalle discussioni nelle assemblee».