Angelo Aquaro, la Repubblica 11/8/2009, 11 agosto 2009
ORGOGLIO METICCIO
Quei buontemponi di Yale - l´ateneo che ha formato un pugno di presidenti, otto giudici della Corte Suprema e l´ormai celebre Henry Louis Gates jr, il professore arrestato in casa "perché nero" - l´hanno presa così seriamente che alle attività del loro club hanno dato il nomignolo di Frankenstein. Trionfo dell´ironically correct: come altro definireste un gruppo di studenti che schiera bianchi, gialli, neri e marrò, tutti uniti dal comune rifiuto di una denominazione definita per razza? Frankenstein, hanno risposto i ragazzi dell´Smhac, sigla che sta per Students of Mixed Heritage and Culture: «Studenti di razza, etnia e cultura mista. Studenti stanchi di essere rappresentati dagli altri gruppi culturali di Yale. Studenti stanchi delle divisioni razziali tradizionali che non dicono più niente». I ragazzi di Yale non sono soli. Cercate i loro fratelli alla Columbia di New York (Hapa Club), alla Michigan University (The Mixed Initiative), all´University of Pennsylvania (Check One). Nella lingua noiosa della sociologia li chiamano "multiracial". Ma per la gente comune hanno già trovato un´icona che tutto riassume e semplifica: il multiracial più famoso d´America non è il suo presidente? Così anche gli altri sono stati ribattezzati. Ed è nata la Razza Obama.
Benvenuti nell´America 2009, gli Stati Uniti dei multiracial, cioè degli americani che etnicamente crescono di più, dal 3,9 al 5,2 per cento in otto anni. Più dei soli neri, che sono 37 milioni di persone, fermi al 12,5 della popolazione nazionale. Più dei latini, ormai la minoranza etnica più diffusa, 40 milioni, cioè il 14,7, e adesso anche un simbolo da sbandierare come Sonya Sotomajor, la prima ispanica alla Corte Suprema. I multiracial sono l´America, oggi. Sono le icone che vendono di più. Si chiamano Tiger Woods, il campione di golf afroamericano per un quarto, per un quarto cinese, per un altro thai, per un ottavo indiano d´America e olandese. Si chiamano Mariah Carey (afrovenezuelana e irlandese), Keanu Reeves (anglo-cino-hawaiano-libanese), Lenny Kravitz (afro-ebreo), Norah Jones (indo-americana), Alicia Keys (italo-irlandese-afro-giamaicana). Si chiamano Euna Lee, sudcoreana-americana, e Laura Ling (sorella della più famosa Lisa, anchorwoman tv), cino-americana, le giornaliste che Clinton ha riportato a casa da Pyongyang.
L´America ha davvero voltato pagina? La guerra delle razze si è finalmente stemperata in quella nazione «race-neutral» agognata da Lucinda Roy, attivista e poeta, su Usa Today? Nel suo studio di Washington, Joy Zarembka, direttrice dell´Institute for Policy Studies, sorride: «La realtà è sempre più complicata. In questo momento, per esempio, dopo il boom degli anni Novanta, il movimento multiracial frena». Ma i numeri, le statistiche, Obama? Non c´è perfino un brand, «Multiracial Apparel», che vende abbigliamento e biancheria intima ispirato alla Nuova America? «Un conto è il movimento vero e proprio, ultima propaggine di quello per i diritti civili, l´orgoglio multiracial modellato sull´esempio del black pride. Altra cosa lo spirito che ispira soprattutto quei giovani che il concetto di razza non lo riconoscono più, lo superano, lo bypassano».
Vediamo. Se negli States di mezzo secolo fa la scelta era tra bianco o nero e biracial, chiamati spregiativamente "mulattos", oggi di etnie regolarmente censite ne conti un´infinità. Basta infilarsi nelle categorizzazioni dell´Us Census Bureau: «Solo bianco. Bianco in combinazione con una o più razze. Solo nero. Nero in combinazione con una o più razze. Solo indiano americano o nativo dell´Alaska. Solo indiano americano. Solo nativo dell´Alaska. Indiano americano o nativo dell´Alaska in combinazione con una o più razze...». La gelida catalogazione è il risultato del politicamente corretto. Dall´anno 2000 gli americani hanno due scelte possibili. La prima: iscriversi a un gruppo razziale fra i cinque indicati (bianchi; neri o afroamericani; indiani americani o nativi dell´Alaska; asiatici; nativi delle Hawaii o di altre isole del pacifico) oppure a un´altra razza da specificare. La seconda: segnare l´appartenenza a più razze, destreggiandosi tra le proposte del Census per il fantasmagorico totale di 63 combinazioni possibili. Il prodotto finale è quel 5,2 di americani (ma le proiezioni 2009 volano già oltre il 6) che si dicono multiracial.
Joy Zarembka quest´esperienza l´ha raccontata lei stessa in un libro che è un piccolo cult, «The pigment of your imagination». In copertina, due bambini: lei e suo fratello, di diciotto mesi più piccolo. I genitori di Joy sono lo specchio di quelli di Obama: qui è il papà che arriva dal Kansas, e la mamma dal Kenya. «Quando nasco l´infermiera dell´ospedale mi segna come nera. Nasce mio fratello e viene segnato come bianco». Per decifrare quei due colori Joy si imbarca per un viaggio che diventa un romanzo. «Razza è un concetto relativo. Per gli americani ero nera, in Kenya mi consideravano bianca. Mi spingo più giù, Zimbabwe, e scopro una discriminazione che non mi sarei mai aspettata: nella nazione tutta nera io mezza bianca ero vista con disprezzo perché coloured, cioè mista».
David Matthews ha un´altra storia da raccontare: quella di un bambino che a 9 anni decide di diventare bianco. Madre ebrea, padre afroamericano, un fratello decisamente nero, l´infanzia tra i teppistelli di Baltimora. «Entri nella mensa della scuola, e che fai? Dove ti vai a sedere? Ti vai a sedere insieme a quelli che sembrano quello che sono e che hanno il tuo stesso colore, bianco? Oppure ti alzi in piedi e dici: statemi bene a sentire, malgrado le apparenze io sarei nero... No, io non avevo dubbi. E poi se eri bianco i prof e la polizia ti trattavano meglio». I prof. La polizia. David quel senso di colpa se l´è portato dentro fino a quel libro, «Ace of Spades», che è un altro caso nell´America che si interroga sulla razza.
La verità è che puoi decantare pure le virtù del crogiolo, del vecchio melting pot. Poi basta che a un sergente di nome irlandese e a un professore afro-americano saltino i nervi e succede il patatrac. Sì, l´Abc è andata a ripescare quel programma Pbs col nero Gates in pellegrinagio a Dublino alla ricerca delle sue radici irlandesi (la storia delle contaminazioni tra schiavi e padroni è antica come il mondo). Ma più che colore è folklore. Usa Today ha indagato il "racial profiling", cioè l´atteggiamento discriminatorio verso le razze. «Avete mai pensato di essere stati fermati dalla polizia per il colore della vostra pelle?». No, risponde il 93 per cento dei bianchi. Sì, il 43 per cento dei neri e il 30 degli ispanici.
Il razzismo non è finito, dice Obama, e a ragione. Siamo a un´altra versione, il razzismo 2.0, lo chiama proprio così, come un programma per computer, Tim Wise, il professore (bianco), che vede paradossalmente nella vittoria di Barack il rischio che l´America abbassi la guardia. «Wise è davvero wise, saggio», scherza Zarembka: «Per molti votare Obama è stato l´ultimo alibi: così la smetterete di dire che siamo razzisti. Il problema è che il razzismo non è mai stato una questione di colore, ma di potere. E quello resta saldamente nelle mani degli americani di origine europea». Dei bianchi, insomma.
Ma se è vero che la strada da fare è ancora lunga, vero è anche che la "Razza Obama" ha cominciato a mettersi in marcia. «Mia madre veniva dal Kansas, mio padre dal Kenya, io sono cresciuto in Indonesia, ho una sorella che sembra ispanica, un cognato che è cino-canadese». I più giovani hanno già accolto il messaggio del presidente. Non è un caso che il 42 per cento di chi al Census si è dichiarato multiracial ha meno di 18 anni. «Un abisso tra loro e la generazione meno aperta, oltre i 65 anni», conferma Leonard Steinhorn, il professore dell´American University che su razza e cambiamento sociale ha scritto due libri.
James Peterson, che insegna African Studies all´università di Bucknell, ha detto all´Abc che la "razza Obama" la spieghi anche con la musica. «Quello che non ha fatto il jazz, quello che non ha fatto il rock, lo ha fatto il rap: vorrà pure dire qualcosa se la più grande star di un genere nato dai neri è, oggi, il bianco Eminem». Forse dice di più un´altra biografia, quella di un signore che si chiama Benjamin Todd Jealous, che a 36 anni è il più giovane capo mai arrivato in cima all´Naacp, la più grande associazione per i diritti dei neri, quella al cui congresso dei 100 anni, a New York, Barack ha pronunciato il discorso in cui urlava che «il razzismo non è morto». Beh perfino lui, mister Jealous, il capoccia della lobby nera, è figlio di madre bianca, malgrado dica di sentirsi orgogliosamente black. Anche questa è «Razza Obama».