Erika Camasso e Giusi Fasano, Corriere della sera 11/8/2009, 11 agosto 2009
ABITI, LIBRI, PUPAZZI IL TEMPO IMMOBILE IN CAMERA DI CHIARA
GARLASCO (Pavia) – Già sull’uscio ti sembra che Chiara sia lì, da qualche parte. Sorride da una fotografia enorme, sul tavolo. Eppure non è quella la Chiara che vedi. L’immagine di una ragazza che chiude gli occhi per sempre su chissà quale dettaglio di questa stanza – quella sì – prende forma. Fa venire i brividi. Cosa sarà stato quel dettaglio? Il mobiletto del telefono che è ancora al suo posto sotto la scala? Le tende bianche ricamate della finestra vicino al camino? Oppure le cornici con le foto- ricordo su una mensola?
Tutto colpisce, nel soggiorno di casa Poggi. Perché si distinguono particolari che non ci sono più ma che sono stati raccontati, descritti, visti (sulla carta) così tante volte, in questi due anni di «caso Garlasco», da diventare quasi incancellabili. Il muro e il pavimento negli angoli dove periti e carabinieri immortalarono sangue, per esempio. Tutto è lindo, certo. A patto di non ripensare alle scene riprese dagli inquirenti subito dopo il delitto. Gli spazi nei quali l’assassino si è mosso sembrano molto più stretti di quanto sia mai apparso da filmati o scatti dell’indagine. La porta chiusa, in mezzo al corridoio, nasconde i gradini che portano giù, in cantina. Nei fascicoli dell’inchiesta gli scalini, il muro, lo stipite si vedono insanguinati: Chiara è lì, senza più respiro, dove la scala curva a sinistra. Ma è il 13 agosto di due anni fa, appunto.
Era un lunedì mattina. La procura di Vigevano dice che quel giorno Alberto Stasi, fidanzato di Chiara Poggi e all’epoca laureando alla Bocconi, la uccise «con crudeltà» colpendola ripetutamente alla testa. Fu «un’esplosione di violenza e un accanimento che trovano spiegazione solo in un coinvolgimento personale diretto che doveva legare vittima e colpevole » ricostruisce il pubblico ministero Rosa Muscio davanti al giudice dell’ udienza preliminare Stefano Vitelli. La pm parla di Alberto come di un ragazzo dalla «propensione maniacale per la pornografia», ipotizza che a scatenare la furia omicida possa essere stato il rifiuto di Chiara davanti alla «pretesa di qualcosa di più o di più particolare rispetto ai loro rapporti intimi». E accusa il ragazzo anche per la detenzione di materiale pedopornografico, con un processo diviso da quello per omicidio ma che segue lo stesso calendario di udienze. Un’infinità di udienze.
Ce ne sono fissate fino a dicembre. E ci sono al lavoro 22 consulenti per chiudere una volta per tutte una guerra di perizie e controperizie andata avanti finché il gup non ha azzerato tutto: indagini «incomplete», da rifare. Consegna delle consulenze fissata al 30 settembre. Poi si ricomincia con le udienze.
Con Alberto in aula, attento a cogliere ogni minimo dettaglio che possa fargli capire che direzione prenderà la sua vita. «Non può che assolvermi, sono innocente» ripete lui. E studia ogni virgola del caso come nemmeno il più interessato degli avvocati si impegnerebbe a fare. « in gioco la sua esistenza, è chiaro che vuole andare a fondo di ogni cosa» dice il professor Angelo Giarda che lo difende assieme ai fratelli Giuseppe e Giulio Colli. Tanto meticoloso, Alberto, da analizzare ad uno ad uno anche i particolari più tecnici delle perizie: quelli informatici sulla memoria del computer o quelli medico-legali sulla presunta macchia di sangue trovata sui pedali della sua bicicletta. Chino sulle carte, a leggerle e rileggerle, a cercare i punti deboli dell’accusa. Salvo brevi pause al mare con gli amici, il biondino di Garlasco studia il processo e decide ogni passo. A cominciare dalla scelta del rito abbreviato che ha voluto chiedere personalmente al giudice. Suo padre dice che «il mio ragazzo finora ha avuto solo fango e bugie», che «arriverà il momento in cui diremo quel che c’è da dire».
Pochi isolati più in là, nella villetta del delitto, Giuseppe e Rita Poggi pescano ricordi da album buttati alla rinfusa sul divanetto del portico. Sono vacanze appartenute a molte estati fa. «Qui siamo in Austria», «ecco, qui in Alto Adige». Chiara ha 15-16 anni, tenuta montanara e capelli lunghi, il più delle volte abbraccia suo fratello Marco, oggi ventenne. Rita e Giuseppe parlano come incantati dalla bellezza dei loro ricordi. Lei racconta di quando un imprenditore la mise in imbarazzo, al bar, dicendole davanti a tutti che sua figlia era una ragazza straordinaria. Lui è sul punto di piangere ogni volta che ripensa a lei. «Chissà perché - si ostina a chiedersi - mi viene in mente spesso la sua voce, al mattino presto, quando bisticciava con Marco perché lui tardava a vestirsi...».
Rita confessa che andare in cantina o fermarsi in camera di sua figlia «all’inizio è stato durissimo». Quando il suo avvocato, Gian Luigi Tizzoni, le ha detto che avevano dissequestrato la casa lei si è organizzata perché altri pulissero le tracce dell’ omicidio. Il resto l’ha fatto da sé. Ha lavato tutto ciò che era stato di Chiara e l’ha rimesso esattamente dov’ era e com’era. «Ho fatto il letto, ecco. Non ho toccato nient’altro ». La camera di Chiara è una specie di scrigno che custodisce un tesoro preziosissimo: la memoria dei suoi piccoli gesti quotidiani. Giacche, vestiti, biancheria, libri, i pelouche, il cuscino con la foto del gatto, le cartoline appese al muro. Perfino creme, profumi e spazzole, in bagno, sono ancora tutti dove Chiara li ha lasciati. La signora Rita non si è mai nemmeno chiesta se usare qualcosa o no. Anche quando le si è rotto l’orologio ha preferito comprarne uno nuovo piuttosto che usare quello di Chiara. «Sono cose sue e sue restano. Così è come sentirla più presente, più vicina». Suo marito dice spesso che «indietro non si può tornare». Certo che no. Eppure certe volte Rita guarda i suoi oggetti, chiude gli occhi e comincia a fantasticare «magari rientra da un momento all’altro...».