Enzo Bettiza, La stampa 11/8/2009, 11 agosto 2009
L’IRAN A LEZIONE DA STALIN
Colui che ha centrato con esattezza lapidaria la natura e la struttura dei tre processi in corso a Teheran, dopo la frode elettorale del 12 giugno scorso, è Hossein Ali Montazeri, personaggio storico della rivoluzione islamica instaurata nel 1979 dal «Padre Fondatore» della Repubblica iraniana, l’ayatollah Khomeini. Montazeri, ayatollah dissidente, quasi rievocando il termine di «rivoluzione tradita» usato a suo tempo da Leone Trockij, ha definito «stalinisti» i metodi e gli argomenti con cui i sostenitori della presidenza di Mahmoud Ahmadinejad stanno inscenando quei procedimenti farseschi nella turbolenta capitale iraniana.
Si dice che la storia in genere non tollera ripetizioni. Ma le similitudini tra quello che, nel terzo decennio del Novecento, accadeva nei tribunali di Mosca e ciò che accade oggi nei tribunali di Teheran sono così impressionanti da renderne la ripetizione, più che grottesca, spettacolarmente ed egualmente sinistra sul piano dell’inganno giudiziario e del sostrato politico. Non è più soltanto una farsa che si ripete e si clona terribile nelle sue accuse composite, nei suoi amalgami indiziari, nei suoi autodafé immaginari, nei suoi confessandi sottilmente seviziati, ricattati, minacciati di morte.
l procuratore generale dei tempi staliniani, l’ex menscevico Andrej Višinskij, uomo triviale ma non privo di talento oratorio e giuridico, aveva ricevuto da Stalin un ordine preciso: eliminare con prove «inconfutabili» la vecchia guardia rivoluzionaria di Lenin accusandola dei reati più infamanti. Mastice del teorema doveva essere sempre un amalgama di più capi d’accusa: complotto antistatale, sabotaggio economico, intelligenza con i servizi segreti occidentali o nipponici, contatti e intrighi con la Quarta Internazionale trockista, il tutto magari collegato e rafforzato dal peccato originale di un’origine sociale borghese e capitalista. La parte devastante del processo, prima che nell’aula, si svolgeva nel truce carcere della Lubjanka. Laggiù, nei sotterranei, dove il giorno non si distingueva più dalla notte, l’imputato veniva debitamente «preparato» da specialisti della polizia politica con torture, insonnie prolungate, sedute psicoideologiche interminabili, ricatti e minacce concernenti i familiari più intimi. Al momento culminante del processo pubblico, in una sala rigurgitante di agenti in borghese e di giornalisti, compariva alfine davanti all’urlante procuratore un replicante sbarbato, vestito decentemente, curato delle ferite infertegli, in apparenza né intimorito né perplesso: un ex uomo svuotato, debolscevizzato, disumanizzato, capace ormai soltanto di approvare le invettive zoologiche - verme! scimmia! jena! sciacallo! - che l’ex menscevico asservito a Stalin gli scaraventava addosso come guano incandescente. La confessione meccanica di reati mai compiuti precedeva il verdetto della pena capitale, generalmente eseguita negli scantinati della Lubjanka subito dopo il processo, o della condanna alla morte omeopatica in qualche sperduto gulag siberiano.
Tornando ai tre processi di Teheran, di cui due in parte già celebrati, ci sembra di capire che la tortura preparatoria alla confessione di colpe immaginarie era stata rapidamente praticata sugli imputati nel centro di detenzione di Kahrizak. Centro non a caso classificato «stalinista» dall’ayatollah Montazeri, così come, non a caso, quasi tutti gli imputati, compresa la giovane studiosa francese Clotilde Reiss, si sono a loro volta autoclassificati «colpevoli». Anche qui la tecnica surrettizia dell’amalgama, complotto, sabotaggio, intelligenza col nemico eccetera, ha funzionato costringendo gli accusati, come nell’orribile Anno Trentasette di Mosca, a dichiararsi spontaneamente rei di reati mai consumati. La televisione, assente ai tempi di Stalin, ha contribuito a ingigantire nella Teheran della Guida Suprema Khamenei l’inverosimiglianza della «confessione» di Ali Abtahi (vice per diversi anni del presidente Khatami) il quale ha insinuato che un altro ex presidente riformista, il notissimo Rafsanjani, avrebbe dato una mano a certi «cospiratori» per vendicarsi della sconfitta inflittagli da Ahmadinejad nelle precedenti elezioni presidenziali del 2005. Quanto credibile fosse Abtahi lo ha poi rivelato la moglie asserendo che l’insinuazione era stata estorta al marito con la forza e la minaccia. Una differenza tra i processi falsificati di Mosca e questi di Teheran è nelle nuove tecnologie di comunicazione che consentono il rischio, a chi dissente, di svelare in fretta al mondo la verità.
Ma qual è la verità grande, la verità politica di fondo, della lotta di potere che sta lacerando dall’interno uomini e istituzioni tradizionali della rivoluzione islamica iraniana? Pure qui si affacciano similitudini con le sanguinose lotte per il potere nella Mosca degli Anni Trenta. Stalin sterminò la vecchia guardia bolscevica di Lenin. Se ora facciamo un elenco dei principali processati di Teheran, e se vi aggiungiamo i principali contestatori in libertà di Ahmadinejad e del leader spirituale Khamenei, cioè i candidati perdenti Mousavi e Karroubi, l’eloquente Montazeri, l’irrequieto Rafsanjani, tutti cresciuti all’ombra del defunto Ruhollah Khomeini, ci accorgiamo che in Iran è sotto tiro la vecchia guardia clericale della Repubblica islamica. Ma qui spunta anche un’altra fondamentale differenza con la Russia staliniana. A Mosca, quando Stalin faceva processare Kamenev e Zinoviev e si preparava a liquidare Bucharin, la piazza non fiatava. A Teheran invece, mentre Ahmadinejad sembra voler seguire le orme di Stalin, la piazza insorge, anzi seguita a insorgere nonostante le cruente rappresaglie delle milizie pasdaran e basiji, nel momento stesso in cui un Rafsanjani e un Montazeri elevano in nome di Allah la voce perfino all’indirizzo di Khamenei, imbarazzato protettore eccelso di Ahmadinejad.
Il teocrate Khomeini, dal cui mantello nero sono usciti coloro che Ahmadinejad vorrebbe oggi distruggere, riteneva che l’islamismo sciita fosse l’erede legittimo del comunismo nella guida di tutti i popoli diseredati della Terra. Ma probabilmente non riteneva che nell’eredità potessero rientrare anche le truffe elettorali e i processi farsa. I seguaci di Rafsanjani ormai sanno e vedono che la peggiore eredità postcomunista sta passando nelle mani di Ahmadinejad. Il paradosso che la storia pone perciò ai riformisti è tremendo: come salvare il mito del leggendario Padre Fondatore, come combinarlo con la democrazia elettiva, come scioglierlo dall’utopismo comunisteggiante e contrapporlo, depurato, ai veri e perfidi eredi iraniani del comunismo sovietico?