Stefano Semeraro, La stampa 10/8/2009, 10 agosto 2009
IL SORRISO DI MAGIS E IL SONNO DEL VIRUS
Il sorriso che smarcava il mondo, il più grande passatore e show-man nella storia del basket, o se preferite semplicemente Earvin «Magic» Johnson, compie 50 anni. Il 7 novembre del 1991, quando si presentò alla stampa e ammise in diretta tv «Sì, sono sieropositivo all’Aids», pochi avrebbero scommesso di vederlo approdare alla mezza età. Invece l’ex prodigio di East Lansing, l’uomo che insieme a Larry Bird ha acceso la Nba negli Anni 80, è ancora vivo e sorridente. Il virus si è assopito dentro di lui. Con l’aiuto di un costoso cocktail di farmaci Magic è riuscito a ingannarlo per tutti questi anni, esattamente come faceva con gli avversari in campo: occhi da una parte, palla dall’altra, «no-look pass». Palleggio ai 200 all’ora, finta a ubriacare la difesa, assist celeste per un gancione di Kareem Abdul Jabbar, una schiacciata di James Worthy o Bob McAdoo. Altruismo, intuizione, magia. E una risata che neppure Eddie Murphy.
Se Michael Jordan è stato (probabilmente) il più grande, Magic è stato (sicuramente) il più divertente. Gioia pura. Il Brasile dei canestri, un cucciolone alto 2 metri e 5 che giocava incredibilmente da playmaker e si portava a spasso in assoluta levità i suoi 103 chili da una costa all’altra del campo e dell’America, mostrando la palla, nascondendola dietro la schiena, sotto le gambe, comunque dove l’immaginazione degli avversari non arrivava. Un Miracolo con mille tentativi di imitazione, tutti falliti.
Quando i Lakers lo pescarono da Michigan State, l’Università che Earving aveva risvegliato dalla mediocrità e trascinato al successo nel campionato NCAA, lo stipendio base nella Nba era di 150 mila dollari, e le finali andavano in differita. Earvin diventò la matricola più pagata della storia, 500 mila verdoni a stagione, record superato poco dopo dai 600 mila che i Boston Celtics misero in tasca a un biondino silenzioso che si chiamava Larry Bird.
I due uomini destinati a fare di una Lega depressa uno show planetario si erano incontrati la prima volta nella leggendaria finale del campionato universitario 1978-79. Bird e Indiana erano i favoriti, ma sulle spalle degli Spartans di Michigan ci finì Johnson. «Mentre tutti i nostri tifosi festeggiavano io guardai quel ragazzo biondo che piangeva seduto in panchina con la testa in un asciugamano. Pensai che io e Larry Bird ci saremmo rincontrati altre volte». Infatti.
Lakers contro Celtics, Magic contro Bird è stata la spina dorsale del basket di un decennio. «Sedetevi e godetevi lo spettacolo, gente», come Magic disse prima di una delle quattro finali in cinque anni giocate contro i rivali in verde. Negli Anni 80, se amavi il basket, non c’era scampo, dovevi scegliere: east coast o west coast, la grinta nobile di Boston o il basket funky di L.A., l’understatement di Larry o i miracoli centrifugati di Johnson.
A spruzzare Earvin junior di magia per la prima volta era stato un giornalista, Fred Stabley, dopo un match di Johnson con la Everett High School, la scuola per bianchi di cui era la perla nera: 36 punti, 18 rimbalzi, 14 assist, 5 recuperi. «Mai visto uno così alla tua età, ragazzo: va bene se ti chiamo Magic?».
Johnson era nato il 14 agosto del ’59 a Lansing, Michigan, a un passo da Detroit, figlio di un operaio della General Motors, Earvin senior, e di mamma Christine, due ex cestiti. Nove fratelli, la palla sempre in mano, le partite Nba e Ncaa guardate sul divano di casa insieme al babbo che negli allenamenti lo abituava a prendersi schiaffi, gomitate, spinte senza fiatare: «Mai chiamare fallo, figliolo».
Una lezione che gli servì quando lasciò il babbo e i fratelli in lacrime per diventare una stella di Los Angeles. Dodici anni di Nba, più uno spezzone dopo il primo ritiro, con 9 finali e 5 titoli, più una medaglia d’oro nel Dream Team Usa ai Giochi di Barcellona ’92. Il buonumore guascone ereditato da mamma Christine, con cui ha saputo assorbire gli insegnamenti di coach Pat Riley - che lo trasformò in un tiratore -, conquistare i compagni e far sorridere persino lo scorbuticissimo idolo della sua infanzia, Kareem Abdul Jabbar, «il fratello venuto da un altro pianeta», gli è servito anche per conquistarsi il rispetto, la stima, l’amicizia fraterna di Larry Bird. E la simpatia miliardaria di Jerry Buss, il boss dei Lakers che organizzava i festini «papi-style» nei quali Magic forse si è beccato il morbo.
Dopo il ritiro del ’91, la parentesi da coach nel ’94, il breve rientro del ’96, e nonostante l’incombenza del virus, ha investito su se stesso e sui suoi guadagni. E’ diventato consulente per l’Aids della prima amministrazione Bush, d’accordo con il sindaco di New York Bloomberg ha aperto una multisala ad Harlem. E poi partecipazioni in ristoranti, banche, centri commerciali, palestre con la «Magic Johnson Enterprise», l’amore non intaccato neppure dalla malattia (e dalle infedeltà) della moglie «Cookie» e dei tre figli. Sempre con il suo faccione sorridente, oggi un po’ più pieno e privo di pizzetto, aperto come una finestra sul mondo. Il grande scrittore Laurence Sterne diceva che quando riusciva a far ridere i suoi lettori si sentiva più importante di un ministro. «Io continuo a sorridere - dice Magic - perché questa è la mia filosofia, perché fa piacere agli altri, non costa nulla e rende bella la vita». Buon compleanno, Miracolo.