Valeria Amerano, Editoriale dei Lettori, La Stampa, 10/8/2009, 10 agosto 2009
CHI SBIANCA IL FORMAGGIO AMMUFFITO?
Accendiamo il televisore per il primo telegiornale della giornata. Coraggio, siamo a tavola. La cronaca ci serve le immagini della truculenta macelleria italiana: famigliole tranquille come nidi di vipere, sgozzamenti, regolamenti, vendette pubbliche e private, in branco o in solitaria, spari, coltelli, sangue sul selciato, cartocci di macchine planate nella meliga, tre quattro bravi ragazzi a duecento all’ora, etti di alcol nel sangue, gioventù normale, gioventù solare.
Ma a stringere lo stomaco già indurito da questi drammi sono, da tempo, troppo tempo, le scoperte di magazzini segreti attivissimi dove il cibo scaduto, putrido di vermi e rifiutato dai topi, viene tritato, rimpastato, sbiancato, rigenerato e rimesso in commercio.
La telecamera si sofferma su barili di uova marce, ammassi neri di formaggio, prosciutti sotto pellicce di muffa. «Aziende del Nord, aziende localizzate nel Sud», riferisce vago il giornalista, di solito preciso nei dettagli del numero e le modalità delle coltellate; aziende «che lavorano i prodotti deteriorati per inserirli nuovamente nel circuito della grande distribuzione a prezzi stracciati».
Non ci basta. Vogliamo i nomi dei criminali, le facce sul giornale; vogliamo guardarli secondo la fisiognomica: vedere se assomigliano di più ai maiali, agli sciacalli o agli avvoltoi. Vogliamo leggere il nome dell’azienda e ricordarcelo, riconoscere il formaggio ricostruito che ci aspetta sul bancale del supermercato con il bambino, i nonni, il carretto, la mucca che ride, i fermenti lattici vivi, la capretta inerpicata e il cancro che cammina.
Un delinquente che avvelena la società o fiancheggia l’operazione per trarne vantaggio non ha diritto alla privacy: va denunciato, esposto e punito. Prima che in tribunale, ad abbuffarsi in pubblico di quel che ha prodotto.