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 2009  agosto 09 Domenica calendario

LA SOLITUDINE DI ROSSANO DENTRO OTTO STAGIONI


Immagina che in ritorno di fiamma artistica volessi scrivere, sia pure in formato portatile, una storia ridotta della pittura italiana, mettendo a fuoco e fiamme gli ultimi, diciamo venticinque anni? Bene, se davvero decidessi di buttarmi nell’inutile impresa, personalmente piazzerei al centro del sommario il 54enne Mariano Rossano, pittore appunto, napoletano di Roma, nel senso che sotto il Vesuvio ci è solo nato, campione di quel bizzarro movimento che il compianto teorico della "linea analitica", Filiberto Menna, nel 1987 ritenne opportuno definire Astrazione povera, e cioè una pittura essenziale, poetica, interessata a indicare uno spazio ideale, assoluto. Quasi un paradiso delle migliori intenzioni delle avanguardie (rigorosamente pittoriche) del secolo scorso.
Esempi: lo Spazialismo di Lucio Fontana, ma anche, tanto per fare nomi e perdersi negli elenchi e negli specchi, il Suprematismo di Kazimir Malevic. E così facendo fino a certi americani logici e severi, Morris Louis, Kenneth Noland, o addirittura determinate suggestioni che giungono ora da Yves Klein ora dalla sua "succursale" milanese, Piero Manzoni che per il bianco, per tutto ciò che era "acromo" ebbe una vera ossessione. Prendi allora, giusto per rendere il racconto più animato, la Roma artistica dei primi anni Ottanta, con gli epigoni della Transavanguardia intenti a realizzare "imparaticci" figurativi a metà strada fra la citazione del Carrà "arcaico" e la sovrapproduzione di teschi e cagnetti legati all’alberello alla maniera di Enzo Cucchi, e prendi anche la scuderia di Fabio Sargentini asserragliata nelle stanze della Galleria "L’Attico".
Oppure il "Pastificio" di via degli Ausoni nel quartiere di San Lorenzo, anche lì, teschi assediati da altri teschi oppure, in un eccesso di atto di fede verso la Scuola romana di Scipione, sfondi color cacca mordente, sì, una diarrea post-informale da istituto d’arte, abitati da lucertole, pettini, sottovesti, catrami vari, cera, come in un possibile reliquiario fra Burri e Jasper Johns, e così facendo fino a conquistare un piazzamento negli attici del generone cittadino sparso fra piazza San Lorenzo in Lucina e Monti Parioli.
 in quel contesto che, da autentico pezzo unico, monotipo poetico, prende a mostarsi Mariano Rossano, con la sua pittura che, almeno inizialmente, sembra irrinunciabilmente avvinta a un bianco e nero percepito come segno mistico di sottrazione, non per nulla, sempre con il sostegno di Filiberto Menna, durante la Biennale del 1988, Rossano innalza la bandiera virginea dove al posto del nodo sabaudo c’è il motto di Mies Van Der Rohe: «Il meno è il più»; inutile aggiungere, giusto come dettaglio coreografico che durante una festa in maschera di Carnevale organizzata proprio dal Menna nella sua casa di via dei Colli della Farnesina, con la consegna tematica di indossare abiti ispirati alla pittura contemporanea, tutti o quasi si presenteranno lì ricoperti di tela di sacco giustificando la scelta come "un omaggio a Burri", per tacere che "travestirsi", metti, da Duchamp o da Piero Manzoni sarebbe stato più problematico, olfattivamente sconveniente al semplice pensiero della "Merda d’artista".
Bianco e nero, dicevamo, almeno negli anni in cui Rossano ha dalla sua l’apprezzamento di un grande gallerista, Gian Tomaso Liverani con "La Salita" di via Garibaldi. Che personaggio, Liverani, occhio clinico, celebre per non aver mai voluto vendere un solo quadro in tutta la sua vita, fra fra coloro che apprezzano d’istinto il talento di Rossano: la prima personale che ha luogo lì sembra essere un manifesto chiaro e netto dedicato alla persistenza del gesto pittorico, Mariano sembra dire esattamente: non è vero che non è accaduto nulla, la pittura ormai deve mostrare le proprie ossa rotte durante l’attraversamento del tunnel del vento delle avanguardie del Novecento, ciononostante la strada non potrà mai essere quella della sua cancellazione, tuttavia la pienezza è perduta per sempre, irrimediabilmente.
Ciò che resta sulla tela di Rossano è quindi una sorta di "stenografia" figurale, l’anima, intesa come germe interno, interiore delle cose, dello spazio, della visione stessa, certo, sarà un cammino duro, si tratterà di dimostrare che può avere luogo un tipo di pittura che rinunci a ogni retorica, a ogni ridondanza, un’astrazione povera, quasi creaturale, "francescana", misticamente convinta di mostrare un nucleo assoluto delle cose, sì, come ho detto prima: una sorta di paradiso della pittura.
Intendiamoci, Rossano non è solo in questa sua marcia di avvicinamento al primo giorno della creazione, gli fanno ala o se preferite compagnia, gli amici coetanei scrittori e poeti, gli stessi che hanno condiviso con lui i vent’anni, Marco Lodoli, Edoardo Albinati, e in un secondo momento anche il sottoscritto e Sandro Veronesi, così fino a farne uno dei loro artisti, vogliamo dire "di culto"?, o piuttosto privilegiati, una sorta di porto visivo sicuro da opporre alla concitazione di ceto post-modernità che, sempre ragionando di predilezioni artistiche, scambia un’installazione da portfolio "Prada Autunno-Inverno" per un miracoloso dispaccio sullo stato di grazia dell’umanità in nome dell’eleganza concettuale, ovvero, come direbbe Alberto Sordi nei I nuovi mostri, «Sto cazzo!».
La mostra che si è appena inaugurata alla galleria romana "Monserrato Arte 900" del poeta Vincenzo Mazzarella (via di Monserrato 14, fino a oggi) prende il titolo di "8 stagioni" ed è accompagnata da alcuni testi telegrafici che Rossano ha chiesto agli amici scrittori e poeti, i suoi compagni di strada, una per tutte: «Tra la nuvola e il mare ogni goccia è sola, ha freddo, piove, è libera», sono le parole che Marco Lodoli ha dedicato un lavoro che ha per tema la solitudine, ossia un’ampia zona di rosso che sembra incombere sul bianco della superficie ancora intatta, inabitata dalla pittura.
Diversamente dagli anni degli esordi, il colore non è tabù nella pittura di Rossano, intatta è invece l’intenzione di circoscrivere una possibile cosmogonia con pochi elementi figurali, il colore come luogo di massima saturazione dello sguardo, certo, e subito accanto lo stelo nero, questo è quasi una sigla della sua pittura, lo stesso stelo che figura in quello che è forse il pezzo più straordinario che troviamo nella mostra: "Credo", una sorta di croce composta da una successione verticale di tondi dorati interrotti appunto da uno stelo nero, un’opera che riesce nel medesimo tempo a ricondurci al tempo assoluto del Suprematismo e nello stesso tempo a farci ricordare com’erano fatti i rosari di teak che dimoravano al capezzale delle prime case del dopoguerra, quando al posto d’ogni ridondanza il mondo ebbe finalmente modo di scoprire la semplicità del Moderno, un pensiero che Rossano non ha mai cancellato alla sua pittura.