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 2009  agosto 09 Domenica calendario

SE UNA BUCA NON PER TUTTI


Il Golf in Italia è sempre stato visto con molto sospetto. Per molto tempo è stato uno sport per ricchi identificato con l’aristocrazia e l’alta borghesia. Quindi uno sport bandito dalle passioni disponibili e possibili per chi volesse autenticamente definirsi di sinistra negli anni 70. I leader del Pci potevano avere la barca a vela ma non potevano giocare a golf senza rovinare la propria immagine popolare ed operaia. La barca a vela in fondo non è altro che un camper che galleggia mentre il golf è uno sport elitario e individualista. Gli italiani sono egoisti ma non individualisti, amano il branco e la squadra. Da soli in mezzo ad un prato a fronteggiare solitari la pallina bianca grossa come un testicolo non ce la facciamo proprio. Per questo forse l’Italia non ha mai prodotto nessun vero grande golfista.
Anche se l’apparizione all’ultimo British Open, il Wimbeldon del Golf, a Turnberry in Scozia, del giovanissimo veronese Matteo Manassero che ancora dilettante a soli 16 anni e qualche mese è arrivato dodicesimo, cosa mai accaduta nella storia della prestigiosa gara, fa sperare per un’ inversione di rotta.
Altri luoghi comuni sul golf sono che sia uno sport da vecchi. Sempre Manassero dimostra che non è vero. Caso mai è uno sport che si può giocare ad altissimo livello anche a sessant’anni, come ha dimostrato sempre all’ultimo British Open, Tom Watson, vincitore nella sua carriera di altri cinque precendenti Open britannici e che a 59 anni stava per vincere il suo sesto entrando, se già non lo fosse stato, dentro la leggenda. Purtroppo stremato ha mancato un putt, l’ultimo colpo di precisione sulla superfice dura e piatta del green, piazzola dove sta piantata la bandiera in ognuna delle 18 buche del percorso, di soli due metri e mezzo. Questo errore gli è costato la vittoria facendosi riacciuffare da Stewart Cink, 35 anni, che poi lo avrebbe definitivamente sconfitto allo spareggio.
Altro luogo comune da sfatare quello di cui parlavamo all’inizio, lo sport per ricchi. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna a golf giocano tutti. La scelta dei campi è infinita. Si va dai club privati antisemiti e razzisti ai percorsi pubblici aperti dove si pagano pochi dollari o sterline. Nei paesi anglosassoni il golf è un gioco mentre da noi è visto come uno stile vita e come tale apprezzato o disprezzato a seconda dalla fascia fiscale alla quale apparteniamo.
Luogo comune vero invece quello del golf sport razzista. Se non fosse per l’Obama delle 18 buche, il fenomeno Tiger Woods, le minoranze che giocano e vincono a Golf sono molto poche. Negli anni 70 faceva scalpore il grande sudafricano Gary Player che quando giocava in Europa e in America aveva come caddie, quello che si camella la sacca con le mazze, un nero americano che assomigliava a Miles Davis mentre a casa sua per colpa dell’Apartheid i caddie venivano trattati con meno dignità. Recentemente il direttore della rivista Golf Digest è stato licenziato proprio per aver espresso il suo razzismo nei confronti dell’invincibile Tiger Woods in modo volgare ed estremo. La copertina con il titolo «Come si fa a fermare la valanga di vittorie della Tigre ?» portava come soluzione un cappio. L’incitamento al linciaggio anche per scherzo negli Usa è punito severamente.
Ma torniamo alla giovane stella nascente Manassero che qualche settimana prima aveva estasiato sempre i britannici, diventando il più giovane vincitore British Am ovvero la versione per dilettanti dell’Open. Nel 1970 il golf Italiano urlò al miracolo per un’altro giovane prodigio tale Baldovino Dassù, che a 18 anni vinse la gara per dilettanti ma poi passato professionista si perse un po’ come Panatta fece nel tennis.
D’altronde è estermamente difficile diventare un grande campione in uno sport che socialmente viene visto male nel tuo paese. Il senso di colpa latente, non ho idea se Panatta o Dassù lo abbiano avuto davvero, è letale per mantenere adrenalina e concentrazione vive in discipline dove il talento è solo una parte degli strumenti necessari a vincere. Al Golf in particolare si può giocare da Dio 17 buche e mandare al diavolo tutto alla diciottesima buca come Watson ci ha dimostrato. Dassù fu una meteora che però nel 1976 ci diede la soddisfazione di vincere un Dunlop Master gara non importante come il British Open ma sempre molto prestigiosa.
Altro italiano che fece godere gli appassionati fu Costantino Rocca, tarchiato ex caddie che nel 1995 sul più famoso dei percorsi del mondo il difficilissimo St. Andrew sempre in Scozia infilò nella buca la sua ultima speranza per sognare, un colpo al bordo del green distante 22 metri dalla buca, una distanza immensa. La palla davanti agli occhi esterefatti di John Daly che già stava assaporando la vittoria finì dentro. Un miracolo, un po’ mandato in vacca dallo stesso Rocca che molto folcloristicamente per la felicità incontenibile iniziò a rotolarsi nell’erba come un labrador. Dando in escandescenze Rocca scordò una regola d’oro del gioco, mai sprecare energie sia nel bene che nel male. Sovraeccitato Rocca perse ai playoff con Daly l’occasione della sua vita. Controllare la felicità a golf è molto più importante che saper ingoiare la delusione.
Dopo Rocca c’è stato il vuoto anche se il golf in Italia è diventato più popolare e democratico. Manassero ha tutti i numeri per diventare il nostro numero uno. Dovrà però saper controllare il folklore innato nel nostro Dna. A Turnberry ha giocato indossando la maglietta della nazionale, cosa che ha divertito spettatori e cronisti ma che è un campanello d’allarme per uno sport dove la nazionalità conta poco, il capanilismo ancora meno e il folklore se non è accompagnato da disciplina e concentrazione di ferro può giocare brutti scherzi.
Essere qui un Valentino Rossi è molto difficile. Il golf è uno sport che ha una sua dose di noia non è salutare affrontarlo come dei buon temponi. Dipende comunque cosa uno ha in testa. Se l’obbiettivo è la felicità del pubblico e dei cronisti, oppure se l’obbiettivo è vincere come fa Tiger Woods allora meno si ride meglio è. L’enfant prodige in Italia tenuto nella bambagia spesso diventa rapidamente un elefant gris, un elefante grigio. Particolarmente in questo sport che fatica ancora a togliersi di dosso lo stigma di passatempo per conti e marchesi che pur di costruire le proprie oasi verdi e ondulate sventrerebbero una vallata.
Eppure un campo da golf è forse il paesaggio più ameno su cui possa riposare lo sguardo. Manassero è però talmente giovane da poter essere libero da questi demoni politicamente scorretti che altre generazioni si sono trascinati dietro. Il suo idolo è Severiano Ballesteros, spagnolo, uno che alla sua età era già più bravo di lui. Oggi lotta con un tumore al cervello cosa che lo rende ancora più un esempio per il giovane felsineo che può così capire che la vita può diventare lei stessa un trofeo per la quale lottare. Ma non va dimenticata la straordinaria ventisettenne romana Diana Luna che ha vinto in sei giorni l’AIB Ladies Irish Open ed il SAS Masters, prima in Italia. Luna è ora al comando dell’ordine di merito del Ladies European Tour dopo otto gare. Inoltre, altro record, è entrata nella squadra europea della Solheim Cup. Solo Rocca è riuscito a rappresentare l’Italia, per ben tre volte, tra gli uomini. Le squadre delle Solheim Cup e Ryder Cup sono un po’ le nazionali europee del golf che affrontano quelle degli Usa ogni due anni.
 una delle poche occasioni quando il golf si trasforma da gioco individuale a gioco di squadra e l’appartenenza geografica, anzi continentale, diventa qualcosa di emotivo. Se no come nel tennis ognun per se Dio per tutti. Forse per questo noi italiani non siamo riusciti ad avere campioni veri in queste due discipline. Siamo degli "ognuni-tutti" devoti in gruppo a Dio o al partito. Lo sport deve sempre essere in qualche modo di massa per produrre in Italia un campione vero. Direte che le moto GP non sono veicoli di massa ma la moto come idea è di massa e tutti noi quando indossiamo il casco integrale un po’ Valentino Rossi ci sentiamo. Idem quando guidiamo e lo stesso vale per lo scie per il ciclismo. Nel tennis e nel golf non solo non dobbiamo vestirci da golfisti e tennisti ma entrare in un mondo diverso e isolato, il campo di terra rossa o il prato. Per farlo bisogna varcare la soglia di un club e questo per noi italiani è una scelta sociale e politica molto difficile abituati alla Casa del Popolo o alla parrocchia. A noi non piace sentirsi isolati , piace essere sempre nel mezzo, sulla spiaggia o sulla neve, nell’acqua o nelle strade. Non solo. Se perdiamo una gara possiamo dare la colpa agli altri o alla neve o alle macchine. Ma con la racchetta in mano o la mazza, siamo solo noi a perdere. Nel golf bisogna credere in se stessi in modo assoluto, atttività nella quale non siamo molto forti. Quando Rocca si dimenò sull’erba scozzese come un tarantolato, dimostrava di non credere alle proprie capacità. Il merito di quella prodezza per lui andò alla fortuna così come se non ci fosse riuscito la colpa sarebbe stata della cattiva sorte.
La verità invece è che nel golf fortuna e colpe escono tutte dalle mani del giocatore, dipende da quanto uno abbia fede in loro. In un paese catto-comunista come il nostro dove la fede è sempre esterna al soggetto, riposta nelle mani ora della Chiesa ora del Partito, il golf è un attività troppo laica per attecchire come deve. Anche se il punteggio record lo detiene un leader comunista, Kim Jong-il. Il dittatore del Nord Corea nel 1994 quando innaugurò il percorso di Pyongyang completò le 18 buche, secondo le agenzie ufficiali, in soli 34 colpi overo 25 colpi in meno del giro record della storia del golf. Non solo la cosa ancora più strabiliante, se mai fosse possibile, è che Kim fece pure 5 buche in un sol colpo. Golf Digest ha calcolato che le possibilità di fare buca in un colpo solo per qualsiasi giocatore sono di 12,000 a 1. Watson, Manassero, Luna e persino Tiger Woods davanti a Kim dovrebbero vergognarsi quindi di chiamarsi golfisti.