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 2009  agosto 09 Domenica calendario

Da Totò a Mediaset Andreotti ricorda Riaprì Cinecittà dopo la guerra, rilanciò la Mostra di Venezia, arruolò Alberto Sordi e polemizzò con i registi del neorealismo: la sua lunghissima carriera politica è intrecciata a sessant´anni di spettacolo italiano

Da Totò a Mediaset Andreotti ricorda Riaprì Cinecittà dopo la guerra, rilanciò la Mostra di Venezia, arruolò Alberto Sordi e polemizzò con i registi del neorealismo: la sua lunghissima carriera politica è intrecciata a sessant´anni di spettacolo italiano. Adesso questo enorme bagaglio di memoria è riversato in quaranta ore di videointervista-fiume che Tatti Sanguineti ha girato ma che per ora resta clandestina FILIPPO CECCARELLI A h, il cinema, il cinema italiano, la sua fantastica adolescenza, i suoi miracoli: e chi può raccontarlo meglio di lui? Ecco, metti Giulio Andreotti davanti a due telecamere per circa sei anni. In ventuno sessioni di quarantacinque minuti ciascuna, specie di intermittente e interminabile reality, risponde con cauto divertimento e asciutta ironia alle domande più pazzesche. Curioso come la scimmia di una fiaba orientale, rivede foto, vignette, appunti, reperti; gli passano davanti agli occhi spezzoni di film e di cinegiornali. Non di rado emettendo lampi di sorpresa dietro le ampie lenti, si inabissa fra le sue antiche carte e i suoi infiniti ricordi, che poi sono quelli non solo del cinema italiano, ma dell´Italia stessa. In tutto quaranta ore di girato. Per ora c´è un dvd grezzo e un materiale articolato in tre puntate (Ricostruzione, Propaganda e Censura). Ma il cinekolossal andreottiano rischia di rimanere incompiuto, opera in forse, periclitante, magari condannata alla visione di pochi intimi, monumento allo spreco e alla dissipazione della memoria. Prodotta da Tatti Sanguineti e dall´Istituto Luce con la collaborazione del ministero dei Beni culturali, la testimonianza dovrebbe chiamarsi I panni sporchi si lavano in famiglia, cioè con la stessa accorata immagine che il giovane sottosegretario con delega agli Spettacoli scagliò contro Umberto D. e il neorealismo. Nel mitico archivio andreottiano Sanguineti e Pierluigi Raffaelli, infallibile studioso e assatanato cinedocumentarista, hanno scovato la brutta copia di quella storica sparata, dieci foglietti scritti a mano, e la replica personale di De Sica. A sessant´anni di distanza, in tempi di panni messi pure ad asciugare nella più affollata piazza mediatica, il presidente, il senatore a vita, il Divo, l´uomo più rappresentativo dell´antico regime affronta, secondo il meticoloso calcolo degli autori - da lui ormai quasi completamente sedotti - la bellezza di centouno argomenti. Dagli sfollati di guerra che coltivavano patate davanti allo Studio 5 di Cinecittà alle riprese di Quo Vadis, film che a giudizio di Andreotti giovò al Paese quanto il Piano Marshall; dal tragico rogo della Minerva film (Roma, 1947, ventisei vittime) alla guerra dei seni tra la Loren e la Lollo (lui sta decisamente con la seconda: più libera, spiritosa, simpatica, romana); dalla visione a Castelgandolfo di una pellicola su Maria Goretti, con Pio XII turbato dalla scena della santa che si tira su la gonna per fare il bagno, fino a Silvio Berlusconi. E nulla aveva da rimproverare Andreotti a quest´ultimo: fino a quando, una domenica pomeriggio, scanalando in poltrona alla ricerca della partita della Roma, non si è imbattuto nella «monta taurina del Grande Fratello». Candore d´antan di smagati protagonisti. Più ci si allontana nel tempo, in realtà, e più si capisce come e perché - uomini, abitudini, virtù e male arti - la Dc abbia esercitato così a lungo il suo dominio sulla società italiana. In questo senso più di ogni altro Andreotti ha messo il bollo democristiano su ciò che ancora non si chiamava immaginario collettivo; e il cinematografo, che con un filo di diffidenza a sua volta De Gasperi liquidava come «questa vostra lanterna magica», è per il giovane sottosegretario una passione, ma anche una palestra, un laboratorio, un mercato da costruire, un campo di alleanze, mediazioni, combinazioni, pesi e contrappesi. Da questa lunghissima intervista, certo la più spensierata della sua carriera, viene fuori con chiarezza che il problema numero uno dei democristiani era (giustamente) «la pacificazione degli animi». In una situazione di guerra civile strisciante si trattava perciò di sopire da un lato le vampate della rivolta sociale, troncando dall´altro le spinte revansciste; c´era da aprire con prudenza alla cultura americana e un po´ si trattava anche di diventare europei, ma sempre con la benedizione di Santa Romana Chiesa. Nel trasformare il cinema in un´industria (la più rilevante nel Lazio), il giovane sottosegretario incoraggiò gli esercenti, produsse i produttori, in qualche modo gli impose di far riscoprire al pubblico il gusto del sorriso, la speranza del lieto fine. A pensarci bene era un´opera immane, ma ciò che colpisce è il modo in cui a distanza di oltre mezzo secolo Andreotti riesce a sminuzzarla, a triturarla, come se il suo merito storico si riducesse in fondo al successo di un´umile arte, quella di «barcamenarsi». Sgombera dunque Cinecittà, riapre Venezia, si appoggia a un volpone del Minculpop come Nicola De Pirro, «grande distributore di vaselina». Arruola Sordi, che all´inizio gli faceva il verso, e detesta Visconti («uno snobbetto»); si scandalizza per la vita sentimentale di Rossellini, ma lo difende dall´America maccartista che lo considera comunista e drogato. Fa costruire, sempre Andreotti, duemila sale parrocchiali e presta ventimila alpini di leva a De Laurentis per Addio alle armi e La grande guerra. Sincero innamorato del grande schermo, astuto patrono del risorgente cinema, sempre disponibile a fare le tre di notte in saletta di proiezione, dove invita la moglie, senza darlo a vedere si preoccupa di quello che gli italiani devono o non devono vedere. Perciò blocca un film di Soldati sull´occupazione della Fiat, un altro di De Sanctis sulla strage di Melissa, e sequestra un documentario su Matera dove si vedono i poveri che vivono con gli animali nelle case. Però chiude anche a chiave, «buttando la chiave nel Tevere» come specifica Sanguineti, un film di montaggio papista e pacifista, violentemente antiamericano, voluto e ideato dal presidente dell´Azione Cattolica, Gedda. Cesare Zavattini, che di Andreotti conosce la passione ippica, l´accusa di essere uno «sgarrettatore» di film. In realtà i suoi successori su quella poltrona, gli austeri piemontesi Bubbio e Scalfaro, si riveleranno molto più severi e ridicoli. Quanto alla censura, si comprende benissimo che rispetto ai tagli e ai sequestri preferisce evitare «rogne». Perciò previene, attenua, dissuade, sostituisce; fino a convincere Rizzoli a girare di nuovo un sacco di scene di un film su una religiosa dell´ordine di suor Pascalina, potentissima governante di papa Pacelli. un approccio compromissorio, purgatoriale, fatto di accomodamenti e «soluzioni dietro alle quinte». Sanguineti e Raffaelli gli fanno vedere una scena strepitosa, una delle pochissime in cui compaiono insieme Sordi e Totò; il copione prevede che il secondo menzioni De Gasperi in modo che può ritenersi irrispettoso, e allora dalle carte viene fuori che Andreotti in persona, in sede di montaggio, ha prescritto che al posto di De Gasperi Totò dica «Bartali» - e il labiale lo conferma. Di questa e di altre «sciocchezze» ora sorride; ma in qualche modo sembra anche che invochi pazienza: credetemi, è stato meglio così. Anche sul sesso teorizza una censura evolutiva che trova degna sintesi nella formula: «Dalle caviglie di Eleonora Duse all´endoscopia vaginale». Formidabile, in compenso, è il modo in cui Andreotti assiste all´interminabile sequenza dell´Ultimo tango a Parigi in cui Marlon Brando comincia a fare l´amore in piedi con la Schneider, e poi le scivola addosso, continuando per terra fra tendaggi che vibrano e crescenti mugolii. L´impietosa telecamera insegue lo sguardo del Divo Giulio, che ruota gli occhi, li dilata, poi «ehm, ehm... Sono scene che si possono vedere in qualsiasi allevamento ippico», butta lì con risentita noncuranza. La cosa strana, e in fondo anche un po´ triste, è che questo opus magnum cine-andreottianum ha davanti a sé un incerto destino. Il materiale è ben diviso, ma il montaggio ancora sommario, mancano le musiche, il repertorio è incompleto. L´occasione è unica, pure a basso costo, però servirebbe ancora qualche soldo. Ma l´Istituto Luce, per giunta in pieno riassetto societario, traccheggia; il protagonista tace; Sanguineti, sgomento, confessa di sentirsi come uno di quei cosmonauti sovietici lasciati in orbita in attesa che venga inventato il dispositivo che li riporti a terra. E non solo. L´indubbio valore storico del lavoro si scontra con la vacuità tutta mercantile dei tempi, come se oggi Andreotti fosse diventato di troppo; o forse come se la memoria stessa, che di norma non reca denaro, avesse perso la sua funzione. Va da sé che il regime di monopolio complica il caso dei Panni sporchi. O li compra la Rai, realisticamente, nella persona di Giancarlo Leone, figlio di Giovanni; oppure li acquista Mediaset, su mandato di Piersilvio Berlusconi, figlio del Cavaliere. Ma non è ancora finita perché non c´è impresario - e qui la faccenda si fa cinica - che non consigli di chiudere il tutto in un cassetto e aspettare fino a quando, per vie biologiche, non diventi un vero affare. Al che Sanguineti perde definitivamente la pazienza: «Ma perché devo augurarmi che muoia Andreotti? Non intendo arruolarmi nella categoria dei beccamorti». Quindi, fatte le debite scaramanzie, già sogna e pianifica operazioni situazioniste, proiezioni garibaldine in giro per l´Italia: per lui è diventato un obbligo morale, si vedrà. Ma la testimonianza di Andreotti, che da buon popolano romano sulla morte ha sempre avuto un atteggiamento quantomeno disincantato, suona in realtà come un inno alla vita e un po´ anche come una dotta lezione sul presente, con tutte le sue prevedibili magagne, con tutte le sue eterne sorprese. Uno zibaldone, un rosario di fatti e fatterelli, una collezione di frammenti autobiografici. Il caldo invito di De Gasperi a non essere «frivolo» e a portarsi sempre appresso la moglie ai festival; cionondimeno, la gelosia di donna Livia per la Magnani. L´impervia e comica decorazione da appuntare sull´enorme seno di Ave Ninchi. L´anziana mamma di Andreotti che in tv scambia l´imitatore Noschese per il figlio: «E adesso», lo rimprovera, «ti metti anche a fare il buffone in tv?». Altri tempi, davvero. Quante stranezze, allora, e quante ricorrenze. Le mamme arrembanti delle attrici (oggi veline); le interminabili discussioni lessicali su come chiamare le prostitute (ancora non c´erano le escort); lo scià di Persia che a Venezia ne chiede una per la notte (e il prefetto scarica l´incombenza sul questore); gli slogan dei senzacasa: «Più tetti e meno tette». Perché poi alla fine il potere è sempre uguale e sempre diverso; e se pure a perderlo ci si logora, tra una freddura e l´altra, fa ancora una certa impressione sentir dire proprio da Andreotti che in un futuro non meglio identificato «si arriverà all´intercettazione del pensiero».