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 2009  agosto 09 Domenica calendario

PIERGIORGIO ODIFREDDI

Il 7 gennaio 1610 Galileo scrisse una lettera ad Antonio de´ Medici che raccontava brevemente ciò che aveva incominciato ad osservare in cielo con uno dei suoi cannocchiali esattamente quattrocento anni fa, a partire dalla fine dell´estate del 1609. La lettera terminava con una notizia di giornata: «Questa sera ho veduto Giove accompagnato da tre stelle fisse, totalmente invisibili per la loro piccolezza». E notava con comprensibile e giustificato orgoglio: «Possiamo credere di essere stati i primi al mondo a scoprire da vicino e così distintamente qualche cosa dei corpi celesti».
Fu il primo storico accenno alle scoperte che sarebbero state annunciate con dovizia di particolari il 12 marzo seguente al mondo intero, nella prima grande opera dello scienziato, il Sidereus Nuncius, "Messaggio (o Messaggero) Celeste", in cui ai satelliti di Giove veniva assegnato il nome di Astri Medicei.
U na scoperta che, come Galileo capì immediatamente, confutava definitivamente la centralità della Terra per i moti celesti, e avrebbe potuto e dovuto aprire la via all´accettazione del sistema copernicano. Egli inviò dunque subito una copia del Sidereus Nuncius e la richiesta di un parere a Keplero, che le ricevette l´8 aprile 1610. In soli undici giorni questi rimandò una Discussione col Nunzio Sidereo in cui difendeva e appoggiava Galileo, pur criticandolo per aver voluto dare l´impressione di aver fatto tutto da solo, tacendo i nomi di tutti i suoi predecessori (a parte Copernico). L´ingrato Galileo non si degnò invece di rispondere alla richiesta di Keplero di poter avere uno strumento per confermare personalmente i dati, e questi dovette attendere fino all´agosto 1611 per riuscire a procurarsene uno. Ma non appena l´ebbe, in altri dieci giorni di osservazioni confermò l´esistenza dei pianeti medicei e scrisse generosamente e immediatamente una Relazione sulle proprie osservazioni dei quattro satelliti di Giove per testimoniarlo.
Già prima della Relazione di Keplero, Galileo aveva avuto un importante riconoscimento scientifico dai matematici gesuiti del Collegio Romano, dai quali si era recato nella primavera del 1611: essi lo ricevettero con tutti gli onori, e lodarono il Sidereus Nuncius in un´orazione pubblica. E a Roma lo scienziato toscano fu osannato da nobili e prelati: in particolare, fu arruolato dal principe Federico Cesi nell´Accademia dei Lincei, da lui fondata nel 1603, e fu esonerato da Paolo V dall´obbligo di rimanere inginocchiato al suo cospetto, durante un´udienza.
Ma non tutti accettarono così entusiasticamente le nuove scoperte. Un tal Ludovico delle Colombe, ad esempio, in una lettera del 27 maggio 1611 a padre Cristoforo Clavio, si arrampicò sui vetri sostenendo che la Luna sembrava avere asperità simili a quelle terrestri, ma in realtà queste erano come «figure di smalto bianco dentro una gran palla di cristallo». Al che Galileo si divertì a ribattere, in una lettera del 16 luglio 1611 a Gallanzone Gallanzoni, che se era lecito immaginarsi ciò che faceva comodo, allora lui avrebbe accettato di credere a questa sfera trasparente di cristallo, ma avrebbe sostenuto che non era liscia, bensì con montagne immense e trenta volte più alte di quelle terrestri.
Nel frattempo egli era però già andato oltre il Sidereus Nuncius con le sue scoperte. In una lettera del 30 luglio 1610 informò Belisario Vinta che «la stella di Saturno non è una sola, ma un composto di tre, le quali quasi si toccano, né mai tra loro si muovono o mutano». A Giuliano de´ Medici e Keplero mascherò invece la notizia di questa «stravaganza» nell´anagramma smaismrmilmepoetaleumibunenugttauiras, da risolvere come: altissimum planetam tergeminum observavi, cioè «ho osservato che il pianeta più alto è triplo».
Galileo era stato indotto a credere che Saturno fosse "trigemino" dalla bassa risoluzione del suo cannocchiale a venti ingrandimenti. Con uno a cinquanta ingrandimenti Christian Huygens scoprirà poi nel 1655 che il pianeta ha un anello sottile e piatto, e possiede anch´esso un satellite che chiamò Titano. Nel 1671 Giovanni Cassini scoprirà a sua volta altri due satelliti, Giapeto e Rea, e capirà che gli anelli sono in realtà più d´uno, concentrici e complanari.
Tornando a Galileo, nel settembre del 1610 egli si trasferì da Padova a Firenze, dov´era stato assunto come «matematico primario allo Studio di Pisa e filosofo del Serenissimo Gran Duca», con una cattedra quale sognano tutti i professori: senza dover, cioè, né insegnare né far esami. Lo scienziato continuò le sue osservazioni e l´11 dicembre 1610 annunziò a Giuliano de´ Medici un´ulteriore scoperta con l´ulteriore anagramma haec immatura a me iam frustra leguntur oy, cioè «queste cose immature sono da me raccolte invano», da risolvere come: Cynthiae figuras aemulatur mater amorum, cioè «la madre degli amori (Venere) imita le figure di Cinzia (la Luna)». Keplero provò a decifrare sia questo che il precedente balzano annuncio «in lettere trasposte», proponendo soluzioni sbagliate rispetto alle intenzioni di Galileo, ma fortunosamente corrette alla luce degli sviluppi successivi. Precisamente, nel primo caso salve umbistineum geminatum Martas proles, cioè «salve, o gemelli furiosi, figli di Marte», che anticipava la scoperta nel 1877 dei due satelliti di Marte (Phobos e Deimos). E nel secondo caso macula rufa in Iove est gyratur mathem etc., cioè «c´è una macchia rossa su Giove che gira matematicamente», che anticipava la scoperta di una «macchia permanente» avvistata da Cassini nel 1665 e visibile fino al 1713, e della Grande Macchia Rossa (ri)avvistata nell´Ottocento.
Quanto alle fasi di Venere da lui osservate, Galileo rilevò in una lettera a Giuliano de´ Medici del primo gennaio 1611 che esse non erano tanto una scoperta, quanto un «veder col senso stesso quello di che non dubitava l´intelletto»: in base alla teoria eliocentrica, infatti, tutti i pianeti girano intorno al Sole e devono dunque comportarsi allo stesso modo in cui si comporta la Luna girando attorno alla Terra. E sia Galileo che Keplero sapevano vedere, con l´occhio della mente, ben al di là di quanto permettesse loro di vedere il cannocchiale con l´occhio del corpo. Nessuno dei due poté infatti recarsi sulla Luna di persona per intuire come si sarebbe vista di là la Terra, ma entrambi descrissero ugualmente lo spettacolo nei loro libri: rispettivamente, nella prima giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, e nel romanzo di fantascienza Sonno.
I variopinti risultati della loro immaginazione, oggi confermati dalle testimonianze degli astronauti che quarant´anni fa misero per la prima volta il piede sul nostro satellite, superano ogni sbiadita invenzione poetica. Da un lato, la Terra ha nel cielo della Luna fasi uguali e contrarie a quelle che la Luna ha nel cielo della Terra. Dall´altro lato, poiché la Luna mostra sempre la stessa faccia alla Terra, questa si può vedere soltanto dalla faccia a noi visibile della Luna e, dove si vede, appare fissa nel cielo. Il che significa che chi si trovi sulla faccia visibile della Luna in un periodo di Terra piena, può osservare «questo globo fatal», immobile nel cielo, ruotare nel corso di ventiquattro ore: una meravigliosa dimostrazione visiva del moto di rotazione terrestre, che potrebbe far esclamare a un autocosciente poeta lunare: «Che fai, tu, Terra, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa Terra?».
I terrestri poeti dell´inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c´è. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo continuava a scrivere ignaro nel 1819 che la Luna «da nessuno cader fu vista mai se non in sogno» (Canti, XXXVII, 17-18), benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso: «La Luna cade continuamente verso la Terra» (Principia, III, 4), ma anche calcolato esattamente di quanto essa cade: fatte le debite proporzioni, esattamente della stessa quantità di cui cade una mela nello stesso tempo qui da noi. Il che dimostra che c´è più poesia sparsa nei libri di scienza di quanta ne possano raccogliere i letterati nelle loro antologie, e che non basta guardare e cantare il cielo per vederlo e capirlo.