Elena Dusi, la Repubblica 9/8/2009, 9 agosto 2009
Nelle notti d´agosto la pioggia delle Perseidi ci spinge ad alzare lo sguardo e a porci domande a metà strada tra l´astrofisica e la poesia Un esercizio cominciato giusto quattrocento anni fa con Galileo Galilei ELENA DUSI Accade una volta l´anno, d´estate
Nelle notti d´agosto la pioggia delle Perseidi ci spinge ad alzare lo sguardo e a porci domande a metà strada tra l´astrofisica e la poesia Un esercizio cominciato giusto quattrocento anni fa con Galileo Galilei ELENA DUSI Accade una volta l´anno, d´estate. la notte in cui ricordiamo che l´altra metà della terra è il cielo, che il nostro sguardo può arrivare lontano e che tra noi e le stelle non c´è differenza, almeno negli ingredienti. Accade quando ai duemila punti luminosi che possiamo vedere in una notte d´estate e che forniscono «la stessa illuminazione di una lampada da cinquanta candele alla distanza di quattrocento metri», secondo la stima che l´astronomo Gino Cecchini fece mezzo secolo fa, si aggiunge lo sciame delle Perseidi: le stelle cadenti della notte di San Lorenzo. Ma afferrare la natura delle stelle è questione più complicata che non posarvi sopra lo sguardo per un momento. Qualcuno ha calcolato che vediamo duemila stelle in una notte e seimila nel percorso della volta celeste in un anno, ma che nella nostra galassia i punti luminosi arrivino a cento miliardi e che altrettante siano le galassie nell´universo. P er districarsi non basta il telescopio del monte Palomar, che raccoglie la stessa radiazione di un milione di occhi umani. E così, in un universo fatto di luci e di ombre, va a finire che siano le seconde a prevalere. Non che l´oscurità sia un problema per gli astronomi, anzi. Lo è semmai il suo contrario, come dimostra il big bang con la sua luce troppo intensa per essere costretta in una legge della fisica. tra le pieghe più buie dell´universo che oggi ci si arrovella per tentare di spiegare quella materia e quell´energia oscura che nessuno vede e che eppure esiste, perché così ci assicurano le geometrie degli astri che si muovono sul tavolo da biliardo del cosmo. Così, dimenticata la luce come occhio umano la intende, è su altre onde che i telescopi di oggi sono sintonizzati. Raggi X, raggi gamma, microonde, particelle e antiparticelle - molte delle quali residui della grande esplosione iniziale che da quattordici miliardi di anni corrono lungo l´universo - sono i nuovi protagonisti di quella che è stata chiamata l´astronomia dell´invisibile. Forse l´unica scienza che mentre viaggia lontano nello spazio viaggia anche lontano nel tempo e cerca di avvicinarsi il più possibile all´origine, con lo scopo di immaginarsi come sarà la fine. Che cosa rimane delle stelle ai tempi dell´astronomia dell´invisibile? «Eccole, ci sono sempre. Possiamo guardarle da qui», dice Paolo De Bernardis, l´astrofisico della Sapienza di Roma che nel 1998 ha lanciato dall´Antartide il pallone Boomerang per raggiungere l´esterno dell´atmosfera e raccogliere le microonde che formano la radiazione cosmica di fondo, ovvero l´eco del big bang. Accende uno schermo nero con ascisse, ordinate e grafici che schizzano in su e giù: «Questi sono i dati che il satellite Planck ha appena iniziato a trasmetterci dallo spazio. Nei diciotto mesi in cui resterà in orbita, dovrà scandire l´intero arco del cielo e disegnare una mappa della distribuzione della radiazione cosmica di fondo. Dal suo tracciato otterremo un´immagine dell´universo primordiale». Furono proprio le microonde "eco del big bang", scoperte per caso nel 1964 da due radioastronomi piuttosto infastiditi da un sibilo persistente nelle loro antenne, a suggerire per prime l´idea di un universo in costante espansione il cui passato, per forza di logica, doveva finire col convergere in un unico punto. E mentre Planck con pazienza raccoglie dati nel punto più freddo dell´universo («solo un decimo di grado sopra allo zero assoluto», dice De Bernardis), il telescopio Agile, figlio di Agenzia spaziale italiana, Istituto nazionale di astrofisica e Istituto nazionale di fisica nucleare, segue il sentiero della sua orbita con a bordo un "occhio" sensibile ai raggi X. Il suo collega Herschel disegna la mappa del cosmo nei colori dell´infrarosso e il satellite Fermi osserva lo stesso panorama, ma con la sensibilità per i raggi gamma. «Tutte queste onde ci raccontano la storia dell´universo. Ognuna lo fa con il suo linguaggio, ma il messaggio che sta alla base è identico», spiega Piergiorgio Picozza dell´università di Tor Vergata, il padre di quel satellite Pamela costruito in collaborazione con l´Infn e con l´Asi che a marzo nella grammatica delle onde ha colto i primi segnali della materia oscura. «In fondo con il big bang è cominciato un grande esperimento fatto dalla natura e che noi non riusciamo ancora a interpretare. Possiamo studiarlo per capire come si muovono stelle e galassie. Ma possiamo andare oltre, e porgli domande più profonde. Per esempio qual è la natura della materia e dell´energia oscura, che compongono il ventitré e il settantatré per cento del cosmo e che noi non riusciamo in nessun modo a interpretare». L´enorme buco nero della nostra conoscenza nasce nel cielo, ma finisce per toccare la Terra. «Per quel che ne sappiamo la materia è fatta di atomi: protoni, neutroni, elettroni. Ebbene, ci siamo resi conto che con questo modello riusciamo a spiegare solo il quattro per cento di ciò che ci circonda nell´universo. Il resto? Sulla materia oscura abbiamo qualche idea. Per l´energia oscura non riusciamo nemmeno a immaginare una soluzione», allarga le braccia Antonio Masiero, direttore dell´Infn di Padova. «Le stelle», conclude De Bernardis, «continuiamo a guardarle, ma non è più da loro che vengono le domande difficili». E, come quando la luce è troppo forte e ci si schermano gli occhi con la mano, c´è chi una soluzione prova a cercarla mettendosi il cielo alle spalle e cercando riparo sottoterra. «Potrà sembrare bizzarro, visto che abbiamo millequattrocento metri di roccia sulla testa, ma qui fra le altre cose studiamo il Sole», dice Eugenio Coccia, direttore dei Laboratori del Gran Sasso dell´Infn. «La fusione nucleare che avviene al suo interno emette neutrini. E queste particelle, che sono le più diffuse nell´universo, potrebbero rappresentare l´ago della bilancia del nostro destino. La loro massa rappresenta probabilmente la differenza fra un universo che si espande all´infinito e uno che torna a contrarsi per finire in un big crunch». Dei telescopi sotto alla montagna abruzzese, che esattamente vent´anni fa venne dedicata alla ricerca, oggi non mancano gli emuli. Come IceCube, uno strumento che per vedere i neutrini si fa schermare da uno strato di ghiaccio dell´Antartide spesso millequattrocento metri. O l´esperimento italiano Nemo, che cerca riparo dalle radiazioni dell´ambiente accucciandosi sul fondo del mare al largo di Capo Passero. «Non c´è nulla di strano», sorride Coccia, «se già Aristotele parlava di un gruppo di pazzi che si avventuravano nelle profondità delle caverne per osservare le stelle. Noi siamo i loro eredi. Guardiamo la luce che entra dall´imboccatura, si riflette sulla superficie dell´acqua e ci racconta come è fatto il cielo».