Vari 8/8/2009, 8 agosto 2009
ARTICOLI SULL’UCCISIONE DI MEHSUD TUTTI TRATTI DAI GIORNALI DELL’8 AGOSTO 2009
GUIDO OLIMPIO SUL CORRIERE DELLA SERA
Beitullah Mehsud «voleva morire da martire». Lo hanno accontentato. Un aereo senza pilota della Cia lo avrebbe ucciso insieme ad una delle sue mogli e ad un fratello a Zanghra, nel Waziristan del sud (Pakistan), non lontano dal luogo dove era nato 35 anni fa. Una conferma ufficiale della sua morte non c’è. Fonti pachistani sono «abbastanza certe». Ambienti ribelli, invece, ammettono la dipartita del leader e sostengono che si sarebbe già svolto il funerale. Ma la risposta definitiva – forse – verrà dopo l’ispezione di alcuni emissari nella regione dove è avvenuto il raid.
Il temuto capo dei talebani pachistani, sulla cui testa gli americani avevano messo una taglia di 5 milioni di dollari, era nella casa del cognato insieme ad un nutrito gruppo di guardie del corpo. Sembra che avesse problemi ai reni e dunque aveva dovuto cercare l’assistenza di un medico. stata questa emergenza a tradirlo? Possibile. Anche se erano in tanti a cercarlo. Gli agenti pachistani e quelli al servizio della Cia, decisi ad eliminare un personaggio diventato più pericoloso del fantasma di Osama e, di fatto, trasformatosi nel Nemico pubblico numero uno. Una fama meritata, ma anche esagerata, visto che lungo la frontiera afghano-pachistana non era certo il solo a creare problemi.
Alla testa di una vasta organizzazione con migliaia di mujaheddin, Mehsud è stato accusato di essere il mandante dell’omicidio di Benazir Bhutto, la ex premier del Pakistan, nel 2007. Un agguato accompagnato da attentati in serie – spesso affidati a uomini-bomba – e offensive militari nell’area tribale. Rispetto ad altri signori della guerra Beitullah non ha disdegnato di rilasciare interviste. Occasioni mediatiche per lanciare minacce, dichiarare fedeltà a Bin Laden e al mullah Omar, promettere attacchi anche oltre i confini regionali. Nel mondo dell’intelligence si era radicata la convinzione che Mehsud avrebbe – prima o poi – «radiocomandato » un’azione in qualche città occidentale. Un’indagine a Barcellona aveva fatto emergere qualche indizio in questo senso. Un modo per dimostrare la sua forza riconosciuta anche da altri esponenti ribelli che lo hanno considerato una sorta di coordinatore. Un’investitura che gli ha permesso di tenere testa ai governativi, con i quali aveva concluso una tregua poi saltata. Falliti i tentativi di tenerlo fuori dalla mischia, i pachistani hanno provato a dividere il suo schieramento ispirando rivolte e faide. Manovre sventate da Mehsud con l’uccisione di spie e rivali. Se la sua morte sarà confermata si tratterà di indubbio successo. Ma, come avvertono gli stessi uomini dell’intelligence, di breve durata. I talebani sono già riuniti per decidere il successore. Quattro i candidati: i suoi cugini Hakeemullah Mehsud e Qari Hussein, Hafiz Bahadar del Nord Waziristan, Waliur Rahman. Per ora sono solo dei nomi. Domani potrebbero diventare simbolo di morte.
G.O.
ANCORA GUIDO OLIMPIO SUL CORRIERE DELLA SERA
L’analisi
Q UEL NUOVO P ATTO DEGLI 007 U SA CON I SLAMABAD
di GUIDO OLIMPIO
A Shamsi, a Sud Ovest di Quetta, in Pakistan, c’è una vecchia base che una volta ospitava i jet degli sceicchi. I signori del Golfo venivano per divertirsi con la caccia al falcone. Oggi dalla pista si levano in volo altri predatori, in metallo. Al posto degli artigli hanno missili Hellfire e sistemi ottici sofisticati. I loro padroni sono gli agenti Cia che li pilotano via satellite da Molesworth, Gran Bretagna. Al loro fianco i sempre validi U 2, gli aerei spia della Guerra Fredda. Una piccola flotta di velivoli che fino a giugno ha già compiuto tra Afghanistan e Pakistan 8400 sortite di ricognizione.
Dopo anni di diffidenza, americani e pachistani hanno migliorato la collaborazione. Se i capi talebani e qaedisti – come Mehsud – cadono «fulminati» dai raid il merito è di un’intelligence migliore. Che mette insieme l’high tech dei droni e il lavoro, pericoloso, delle spie infiltrate nei villaggi. A partire dalla primavera, il Pentagono – e la Cia – hanno fornito al Pakistan video, immagini satellitari e informazioni importanti. Un flusso continuo finito a Torkham Gate, un centro di coordinamento vicino al confine con l’Afghanistan. E l’Isi – o meglio, la parte dell’intelligence fedele al governo di Islamabad – ha restituito il favore attivando i suoi informatori. Un cambio di rotta dettato dalla necessità. Mehsud e gli altri talebani locali, d’intesa con Al Qaeda, hanno usato i kamikaze per ferire il Pakistan. E più i droni colpivano, più si faceva insolente e sanguinosa la sfida terroristica.
All’inizio di giugno, da Washington, sono trapelate informazioni su una nuova lista di obiettivi per i Predator e i Reaper: oltre a inseguire i «colonnelli» di Bin Laden, i velivoli senza pilota ha puntato i loro mirini sugli insorti pachistani, a partire da Beithullah Mehsud.
In grado di restare anche 30 ore su una zona di operazioni si sono tramutati in un incubo per gli estremisti. E negli sparuti centri abitati delle aree tribali hanno lavorato sodo le spie. Gente del posto, membri di clan rivali. I risultati non sono mancati. Lo rivela l’alto numero di militanti uccisi ma anche il panico degli insorti, che hanno iniziato «a vedere» traditori dietro ogni angolo. E a temere le piccole «cimici» che guidano i missili. Al Pentagono si augurano che a Islamabad non cambi idea: i pachistani hanno chiesto di avere i loro Predator ma Washington, per ora, non si fida a trasferire un’arma così delicata ad un alleato instabile.
IL FOGLIO
Kabul. Scoprire con certezza se è morto o se è ancora vivo è più difficile che ucciderlo. Tre giorni fa, Baitullah Mehsud era sul tetto della casa del suocero dottore per passare la notte in dialisi sotto il cielo del Waziristan, e scampare anche al caldo d’agosto. Un drone americano lo ha inquadrato e gli ha sparato un missile. Un altro di quegli strike mirati e senza tribunale cominciati dal presidente George W. Bush, che Washington ufficialmente nega – si può bombardare il suolo di uno stato alleato? – ma che il successore Barack Obama non ha sospeso e anzi ha intensificato.
Alto soltanto un metro e cinquanta, 35 anni, diabetico, contrario fino all’ossessione a farsi filmare e fotografare, Mehsud era il nemico pubblico numero uno, il comandante talebano più temuto di tutte le aree tribali del Pakistan. Carismatico, a lui obbedivano cinquemila guerriglieri a tempo pieno e almeno altri quindicimila part time, pronti a lasciare le loro occupazioni giornaliere e a combattere, a un suo ordine. Spietato, faceva recapitare un lenzuolo con ago e filo alle vittime annunciate delle sue squadre di killer pashtun ventiquattr’ore prima dell’inevitabile esecuzione, con un foglietto: ”Preparati il sudario”. L’effetto psicologico, sugli altri oppositori, era comprensibilmente micidiale. Rivoluzionario, Mehsud non faceva parte del fiero sistema tribale, come si crede dall’occidente, da quaggiù, dove tutto sembra la stessa zuppa: lui era l’elemento eversivo eccezionale, un ex insegnante di educazione fisica che s’è aperto la strada nell’arcaico sistema clanico delle montagne wazire semiazzerandolo, ammazzando – o facendo ammazzare dai suoi – circa quattrocento saggi e religiosi dei consigli tribali che lo contestavano o lo avrebbero voluto tenere basso. Era così fuori dalle regole del suo ambiente da garantire rifugio e ospitalità agli arabi e agli uzbechi di al Qaida, non visti bene dai cisposi anziani pashtun. E quando gli altri capi talebani locali hanno protestato, due anni fa, è scattata una campagna fratricida che ha lasciato sul terreno duecento morti. Ed era un fervente sostenitore delle missioni suicide, compresa quella che ha eliminato la candidata Benazir Bhutto nel dicembre 2007. Da qui, dai legami pericolosi con i terroristi cosmopoliti e dalla sua estrema violenza, la rapida ascesa dal nulla fino ai cinque milioni di dollari di taglia del governo americano, consapevole che finché i Baitullah Mehsud alligneranno oltre il labile confine afghano la guerra non sarà vincibile.
L’intelligence militare pachistana, che ha contatti e legami con tutti i gruppi di estremisti, con l’autonomo Baitullah non sapeva come comportarsi. Passava dal definirlo un ”patriota”, come fece l’anno scorso un generale per invocare il suo aiuto in caso di guerra con l’India, ad accusarlo di essere invece un agente indiano, pagato per portare il caos e la violenza nel nord del paese. Un uomo troppo prezioso per essere ucciso, e troppo pericoloso per essere lasciato in vita. Due anni fa l’esercito ha annunciato la sua morte. Il giorno dopo lui ha fatto una parata trionfale, con caroselli di pick up e ghirlande di fiori, e ha tenuto una conferenza stampa davanti ai giornalisti (fotografie: soltanto di spalle). Gli americani sono ancora scettici sulla notizia della morte. Hanno campioni di Dna di tutti i loro bersagli – prelevati quasi sempre a familiari – ma questo caso è più difficile. Andare ora sul luogo della presunta sepoltura nel cuore del Waziristan è una missione impossibile. I testimoni dicono che sono state uccise anche le sette guardie del corpo, oltre al fratello e alla moglie, ma la Cia esita: e se lui fosse corso via all’ultimo, magari sotto un burqa? Le parole dei ministri pachistani, che in passato hanno già dichiarato morti al Zawahiri, Fazlullah, al Yazid, e altri leader più in forma che mai, valgono poco. Più credibili sono le conferme che cominciano ad arrivare dai talebani stessi, e il fatto che quella notte abbiano isolato l’area per cinque chilometri, in modo che nessuno potesse vedere nulla. Qualcuno e loro lo sanno, ha tradito. E ha lasciato vicino alla casa di Mehsud un minuscolo faro a infrarossi grande come un accendino, con batteria da nove volt. Visibile a sette chilometri, dura cento ore, ma di solito i leader estremisti non stanno così a lungo nello stesso posto. In passato i talebani hanno già sorpreso infiltrati con questi congegni e li hanno decapitati.
Potrebbe essere un caso (e lui potrebbe essere ancora vivo). Ma a dare l’ordine di fulminare Baitullah è stato Stanley McChrystal, lo stesso generale che in Iraq ha ucciso al Zarqawi, o ”Z -man”, come lo chiamavano i militari. Resta da capire che cosa succederà ora, dato che la morte di Z-man non fermò il macello in Iraq. Una jirga sta già scegliendo il nome del successore.