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 2009  agosto 08 Sabato calendario

I NOVANT’ANNI DEL GRANDE GIOCATTOLAIO


Oggi, 8 agosto, Dino De Laurentiis festeggia a Hollywood i suoi gloriosi novant’anni. Se si vuol vederlo com’è, lo si incontra qui al Festival nel filmato di Gianfranco Mingozzi Noi che abbiamo fatto la dolce vita: lucido, autorevole, combattivo. C’è una parte di questa interessante inchiesta fra una ventina di sopravvissuti del famoso film che potrebbe intitolarsi «noi che non abbiamo fatto...» e oltre al grande Dino vi compare la leggendaria Luise Rainer (lei 99 anni!), insignita negli Anni Trenta di due Oscar consecutivi, che da Londra ribadisce energicamente la ragioni della sua fuga. Lui afferma che si ritirò perché da buon napoletano non accettava il personaggio di Steiner che uccide i figli (ma la vera ragione furono i costi troppo alti...); e un po’ si assolve perché in cambio di quel copione realizzò La grande Guerra, Leone d’oro a Venezia. Luise insiste che non voleva andare a letto con Mastroianni (sullo schermo d’intende) tanto più giovane. Comunque accanto all’ostinata difesa delle proprie ragioni, tutti e due non nascondono un certo rammarico: forse se avessimo abbozzato, oggi sarebbe meglio.
Perché La dolce vita non è stata solo un successo senza precedenti, tanto da costituire un riferimento assoluta nella storia del cinema, ma anche un’esperienza totale, appagante, irripetibile. E ha creato un legame fra i partecipanti che Marcello definì «è come aver fatto il militare insieme». Dato per scontato il loro entusiasmo, dalla dolcissima e arguta Magali Noel all’intelligente Yvonne Furneaux, dai Paparazzi rimasti (2 su 4) al nobilitato Giulio Questi, dalla sarta Micol Fontana che creò lo scandaloso abito talare di Anita Ekberg a Riccardo Garrone che ancora fa il Padreterno nella pubblicità, dalla costumista Lucia Mirisola che ricorda Piero Gherardi al transessuale Dominot della famosa orgia e immortalato sulla scena francesizzante del suo cabaret, e a tanti altri, tutti hanno qualcosa da raccontare: un episodio, una battuta del regista, una situazione curiosa.
E Mingozzi, che giovanissimo aiuto regista del film aveva battuto il primo ciak, è stato bravo a cavare da ciascuno i ricordi meno ovvi, i particolari che vanno ad arricchire la memoria storica. Da un’idea di Tullio Kezich, ispirandosi al suo incantevole diario scritto a caldo durante la lavorazione di La dolce vita e di recente ripubblicato da Sellerio, produzione di RaiSat (c’è lo zampino di Carlo Freccero...) in unione alla benemerita e sempre più attiva Fondazione Fellini di Rimini pilotata da Vittorio Boarini: una presenza italiana significativa in una rassegna dove la nostra partecipazione si annida tutta nelle sezioni minori, ma minore non è. /[FIRMA]FULVIA CAPRARA
ROMA
Un ragazzo napoletano di novant’anni, che non ha mai smesso di credere ai sogni, di rialzarsi dopo le cadute, di vivere la vita come a un tavolo da gioco, rischiare, puntare, vincere, perdere. Per Dino De Laurentiis, che oggi festeggia il compleanno (è nato a Torre Annunziata l’8 agosto 1919), il mito americano del self made man è un intreccio speciale di fiuto e fortuna, drammi e casualità, fatica e riflettori. Una sceneggiata in grande stile, nel primo atto il protagonista vende la pasta dell’azienda del padre, nell’ultimo è un tycoon hollywoodiano, abituato a discutere con le stelle più scintillanti del cinema mondiale. In mezzo succede di tutto, c’è il dopoguerra, la rinascita, il neorealismo, i matrimoni, la tragedia della perdita del figlio Federico (nell’ 81, in un incidente aereo in Alaska), i premi, i flop, i successi leggendari. Eppure lui, il divo, sanguigno, verace, imperterrito nell’accento partenopeo, anche dopo anni di vita in inglese, è sempre al centro della scena, incantatore nato, esattamente come quando, nella Capri appena liberata dagli americani, gli venne in mente di vendere ai soldati Usa il mare della Grotta Azzurra. Un affarone, condiviso con gli amici del tempo, Steno, Longanesi, Soldati, l’unico modo per nutrirsi in quei giorni difficili: «Nessuno può capire che cosa significa, quando sei affamato e finalmente riesci a mangiare, poter dire ”anche domani mangerò”. L’avvenire si tinge di rosa».
La memoria dei tempi bui, l’orizzonte della rivincita, la consapevolezza e l’ironia sono la bussola dell’uomo che tuttora teorizza: «Se la vita passa monotona non ha più interesse. Invece gli alti e bassi le danno adrenalina, voglia di ricominciare da capo». Lui, per prima cosa, nel 1937, prende il treno e va a vivere a Roma. Frequenta il Centro Sperimentale, capisce presto che è meglio stare dietro e non davanti la macchina da presa («mi sono guardato allo specchio»), inizia a fare l’ispettore di produzione e, più tardi, nell’Italia risorta dal conflitto, realizza capolavori come Riso amaro, La strada, La grande guerra, Le notti di Cabiria, quest’ultimo segnato dai violenti contrasti con Fellini. Del neo-realismo ha una visione pragmatica: «Giravamo per le strade perchè non avevamo quattrini - spiega nel libro che Tullio Kezich e Alessandra Levantesi gli hanno dedicato -, non avevamo niente: solo idee e entusiasmo. E così abbiamo realizzato film che sono andati ovunque e sono entrati nella storia del cinema». Nel ”48 Dino si mette in società con Carlo Ponti, titoli come Guardie e ladri e Totò a colori s’intrecciano con le tappe fondamentali della sua esistenza. Dopo il matrimonio con Silvana Mangano, il 17 luglio del ”49, arrivano i figli, Veronica, Raffaella, Federico e Francesca. Ogni cosa è illuminata dal fervore del tempo, la curiosità dei rotocalchi, i regali fantastici, il cammino parallelo delle stelle perchè quelli sono anche gli anni di Rita Hayworth, di Sofia Loren, di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini.
Per Dino l’America è vicina, una terra promessa che lo aspetta a braccia aperte: «Ero pieno di entusiasmo, però mi dicevo: sarò capace di fare film in americano? Chiamai Peter Maass, e chiesi se avesse qualche idea, lui mi disse ”sto scrivendo un nuovo romanzo, si chiama Serpico. Lessi solo il primo capitolo, lo richiamai subito e gli dissi che compravo il romanzo alla cieca». Non servono altre parole, con Dino succede spesso, dice un titolo e non c’è bisogno di aggiungere nulla perchè il resto si sa, è già nella storia del cinema. La scelta americana coincide con il tramonto della «Hollywood sul Tevere», una nuova legge, nel 1972, limita i sussidi ai film prodotti in Italia dall’industria Usa, i cineasti statunitensi fanno le valigie, De Laurentiis li segue: «In Italia c’è la carta bollata, devi chiedere il permesso anche per andare al gabinetto. In America si è liberi di fare quello che si vuole».
Ovvero tener testa ai registi più diversi, montare imprese titaniche come Bibbia e Guerra e pace, inventare filoni come quello inaugurato dal Giustiziere della notte, digerire flop apocalittici come Dune di David Lynch. Dall’altra parte dell’oceano si può anche, per l’ennesima volta, ricominciare, sposare Martha, conosciuta a New York, in ufficio: «Quel giorno avevo la porta aperta, vedo passare un angelo, rimango imbambolato. ”Chi è?” M’informo, scopro che si chiama Martha Schumacher e lavora nel settore amministrativo». Con lei arrivano due figlie, Carolyna e Dina, e poi i riconoscimenti di questa seconda parte di esistenza. Primo fra tutti l’«Irving Thalberg Memorial Award» consegnato, nella notte degli Oscar del 2001, da Anthony Hopkins che, con la saga di Hannibal, rappresenta l’ultima conferma dell’intuito del produttore: «Il cinema - dice De Laurentiis - non finirà mai, è un grandissimo giocattolo nelle mani degli adulti e gli adulti non lo vogliono perdere. Il film è il mondo dei sogni e ogni essere umano ama sognare».