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 2009  agosto 08 Sabato calendario

«ORA NEMMENO MIO FRATELLO VUOLE OSPITARMI»


I pacchetti si ammonticchiano sul bancone di marmo quando Karim ordina qualche altro merguez. Gli ingredienti per il calorico e poco estivo piatto ci sono già tutti, ma il ragazzo ha dei dubbi: «Voglio che sia un cous cous indimenticabile quello di domani. Forse per me sarà l’ultimo». Karim è un berbero marocchino di 21 anni. Parla uno strano italiano arrotato da un bel francese e ha paura: «Poche ore e divento più clandestino, divento uno che per voi è cattivo, fa un reato». Da oggi il suo essere in Italia da irregolare è reato come stabilisce il decreto sulla sicurezza.
Non ci crede ancora. C’è un fatalismo antico nelle sue parole: «Fino all’ultimo pensavo che non lo facevano veramente e invece l’hanno fatto. Adesso neanche mio fratello mi vuole più. Ha troppa paura. Rischia troppo». E’ questo, forse, il tormento più profondo. Racconta mentre intorno a lui, nel piccolo locale, altri come lui ascoltano tristi, smarriti. «Mio fratello è a posto. E’ grande, ha quasi trent’anni. Ha moglie, due figli. Lavora. E’ messo bene». Appena Karim è arrivato - nove mesi fa con in visto turistico scaduto dopo tre - è stato felice di ospitare il fratello più piccolo. «L’appartamento di corso Vercelli non è piccolo; io dormo in cucina, ma c’è una stanza per mio fratello e mia cognata e una per i bambini. Ci stavamo senza problemi».
Il lavoro poi, malgrado la crisi che assedia Torino, l’ha trovato: «A Porta Palazzo c’è sempre bisogno di uno come me che è forte, fa di tutto. Non guadagnavo tanto, ma 400 euro negli ultimi mesi li ho messi insieme. Persino in un cantiere ho lavorato per qualche giorno». Con quei soldi Karim si mantiene e manda 100 euro al mese a casa, ai genitori. Ma due sere fa davanti a un tè alla menta versato dalla cognata il fratello Hakmed glielo ha detto chiaro: «Devi andartene da casa mia». Così gli ha detto e Karim è disperato: «Tutto il mio mondo finisce. Ma non dò la colpa a lui. Lui è responsabile verso la sua famiglia».
Il ragazzo è vestito come i ragazzi di tutto il mondo: jeans stazzonati, maglietta a righine, un piccolo tatuaggio, forse una tartaruga, al polso destro. Vuole restare a Torino: «Non sono un delinquente. Vengo da Khouribga. Da lì tutti veniamo qui in Italia, a Torino, lo dovete sapere. Ma non sono un poveraccio; ho studiato, sono perito meccanico. Pensavo che qua trovavo un lavoro così, volevo uscire dal Marocco, vivere in un posto più libero più adatto ai giovani. Lo so: ho sbagliato a venire quando c’era già la crisi». Ma poi si ricorda che in ogni caso lui qui non ci poteva stare.
Quasi si vergogna quando racconta che un ballatoio all’altro si è anche innamorato: «Lei è la figlia di un marocchino di Casablanca che è a Torino da più di vent’anni; lei ci è proprio nata a Torino». Non è che la famiglia di Amel abbia visto di buon occhio il legame della figlia con un ragazzo senza lavoro fisso e clandestino. E, infatti, di matrimonio neanche a parlarne. «Lei voleva, io anche. Ma come si fa se la famiglia non è d’accordo. Da adesso tanto neppure sposarmi posso più: una regolare non può sposare un clandestino. Neanche questo ci fate fare».
Karim parla e più parla e più la sua disperazione cresce: «Ma perché succede questo? Che male faccio? Io Amel tra un po’ potevo sposarla, il padre si convinceva. E invece ci negate tutto». Ha un bersaglio per la sua rabbia: «Quel vostro ministro Maroni mi fa paura, mi rovina la vita, la butta via la mia vita». E come chi gli sta intorno nel locale ha anche un’altra paura: «Adesso ci saranno quelli che vanno in giro, le ronde, le chiamate mi sembra, Magari mi prendono». Non sarà così, ma Karim guarda la sua vita dissolversi e ha paura anche dei fantasmi.