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 2009  agosto 07 Venerdì calendario

QUELLA NUOVA BANCA CHE NON PIACE AL SISTEMA CREDITIZIO

Giulio Tremonti non ha dubbi: il riscatto del Sud d’Italia, nella sua visione, passa anche per il decollo di una Banca per il Mezzogiorno. In grado di sostenere i progetti di sviluppo locale impiegando i soldi raccolti nelle regioni meridionali.
Ma il progetto del ministro dell’Economia, lanciato una prima volta nel 2004 e ritornato d’attualità in queste settimane, non trova molti sostenitori. Anzi, è criticato da destra e da sinistra. Non tanto in chiave po-litica, quanto tecnica. Da una parte infatti ci sono la Banca d’Italia e le banche. Che dicono: il Sud ha tutto il credito che gli serve, lo paga anche poco considerata la rischiosità di quegli impieghi per chi li eroga, non esiste nessun legame tra struttura del sistema finanziario e sviluppo delle aree svantaggiate.
Dall’altra ci sono i meridionalisti "vecchia maniera". Che dicono: una Banca per il Mezzogiorno che nasce dal nulla e si fonda sulle banche di credito cooperativo del Sud, come annunciato dal ministro e confermato dal presidente della Federcasse Alessandro Azzi e da quello della Confcooperative Luigi Marino, non è in grado di innescare la svolta necessaria.
Per di più c’è l’infausto precedente di Meridiana, la Mediobanca del Sud voluta nel 1991 da Franco Nobili, allora presidente dell’Iri, la holding statale che deteneva le partecipazioni nelle maggiori imprese pubbliche. Meridiana era controllata dall’Iri, dal Banco di Napoli (che qualche anno dopo verrà di fatto liquidato) e da un gruppo di imprenditori tra cui Pietro Barilla, Alberto Falck, Enzo Giustino, Gianfranco Dioguardi, Giuseppe Ciarrapico, Francesco Ambrosio. Sparì meno di tre anni dopo senza lasciare tracce visibili: poche le partecipazioni assunte, tre i presidenti che si alternarono alla guida, non bassi i costi di struttura sprecati.
Era cominciata la fase dello smantellamento dell’intervento straordinario e della pulizia dei conti pubblici dopo la crisi del 1992. Prima la soppressione della Cassa del Mezzogiorno, poi il commissariamento dell’intero sistema bancario meridionale da parte della Banca d’Italia furono i segnali che il vento stava girando, che l’epoca dell’assistenzialismo stava volgendo al termine, che il sostegno alle aree svantaggiate sarebbe stato gestito con strumenti diversi.
A 15 anni di distanza tuttavia non si registrano progressi: il divario tra Nord e Sud, come documentato da numerosi studi, è rimasto invariato. Il tessuto industriale non si è rafforzato. Le banche meridionali di una certa dimensione sono statetutte acquisite da gruppi bancari del Nord. I politici del Sud hanno cavalcato il malessere delle loro regioni e ora la questione meridionale è tornata al centro dell’attenzione. Con la Banca per il Mezzogiorno in rampa di lancio.
Ma servirà? La Banca d’Italia è convinta che il sistema finanziario del Mezzogiorno abbia registrato significativi progressi in termini di solidità e di efficienza. «Le banche centrosettentrionali – hanno scritto Luigi Cannari e Fabio Panetta, due economisti del Servizio Studi in un volume del 2007 – hanno svolto un importante ruolo positivo, contribuendo ad affinare le tecniche di gestione e, per questa via, a migliorare le condizioni applicate alla clientela meridionale. I ritardi che tuttora caratterizzano il sistema finanziario del Mezzogiorno rispetto a quello del Centro Nord sono strettamente connessi con le debolezze dell’economia reale e con quelle delle istituzioni formali e informali operanti a livello locale». La tesi sviluppata è che la ristrutturazione delle banche meridionali non ha sottratto risorse finanziarie all’economia del Mezzogiorno, e che i problemi veri sono l’efficienza della Pubblica amministrazione e la presenza della criminalità organizzata.
L’Abi commissionò nel 2004 a Prometeia, autorevole società di ricerche di Bologna, uno studio per rispondere alla domanda: le differenze di struttura dei sistemi bancari spiegano il diverso grado di sviluppo delle aree economiche analizzate?
Dopo una ricognizione in Francia, Gran Bretagna, Germaniae Spagna centrata su Aquitania, Yorkshire, Turingia e Comunidad Valenciana, gli esperti hanno dato questa risposta: «Le specificità della struttura dei sistemi bancari non appaiono collegate alla diversa performance economica del paese. Ciò vale anche per aree regionali in ritardo dove non si ravvisa una relazione tra struttura/ morfologia del settore bancario e intensità dello sviluppo economico».
Ma c’è anche chi vede la questione in maniera opposta. «I centri decisionali – sostiene Adriano Giannola, consigliere della Svimez e direttore della Fondazione Banco di Napoli – devono essere sul territorio in cui la banca opera. Adesso, appena si supera una certa soglia di prestito, se ne parla a Milano o a Torino. Le banche di credito cooperativo e le popolari possono essere d’aiuto perché già ora sostengono più delle altre banche le piccole imprese. Ma non basta. Per fare una vera banca di sviluppo bisogna avere il coraggio di ripartire dal Banco di Napoli, trovare un accordo con Intesa Sanpaolo (il gruppo di cui fa parte, ndr) per ridargli autonomia». Un tentativo che fu già fatto nel 1995. Quando l’allora Sanpaolo-Imi acquisì il Banco di Napoli, la Banca d’Italia valutò una proposta per trasformarlo in banca di sviluppo del territorio ma il responso fu negativo.