Guido Rampoldi, la Repubblica 5/8/2009, 5 agosto 2009
LE COMBATTENTI CHE SFIDANO I MULLAH
Trecento soltanto nella capitale, altre centinaia nelle principali città, chiamano il loro gruppo «le Combattenti». Non è un termine enfatico. Difendere i diritti delle donne in un Paese poverissimo e da un trentennio in guerra non è la stessa cosa che partecipare ad un collettivo femminista in Europa.
Si sfidano masnade di mullah pronti a scagliarti addosso un´accusa mortale, blasfemia. Si entra in urto con la casta guerriera - mujahddin, Taliban, milizie al soldo di questo o di quel khan. Si combatte, si muore.
Spesso. Delle cinque donne di alto profilo che nel 2005 un giornale britannico indicava come modelli di un Afghanistan possibile, tre sono state assassinate dai Taliban e le altre due costrette ad espatriare. Dozzine di maestre sono state uccise. Non v´è afgana che in questi anni si sia affacciata nella scena pubblica che non abbia subìto minacce o attentati. L´ultimo episodio in luglio, quando una bomba ferì sei agenti di scorta a Fawzia Koofi, 33 anni, vicepresidente del parlamento e co - fondatrice del gruppo delle «Combattenti». Ma nonostante tutto questo, le afgane che si candidano in queste elezioni provinciali (20 agosto, in contemporanea con le presidenziali) sono 342, il 20% in più del 2005. «Quanto più aumenta la violenza contro di noi, tanto più aumenta la resistenza», dice la Koofi, che di quella lotta partigiana, condotta in parlamento e soprattutto in tv, è uno dei leader. La frase ha il suono epico di un grido di battaglia. Ma una battaglia che non sta andando benissimo, riconosce la Koofi. «Da quando tutti dicono di voler negoziare con i Taliban, i diritti delle donne sono spariti dall´agenda della politica afgana». Come fossero un ostacolo alla trattativa. Non ne accennano i candidati alla presidenza della Repubblica, non compaiono nel programma di alcuno di loro. E´ diminuita perfino l´attenzione della comunità internazionale. «E per che cosa, poi? I Taliban non hanno né l´intenzione né la possibilità di arrivare ad un accordo, non fosse altro perché sono divisi. Karzai e i suoi sfidanti proclamano di voler trattare non perché credano che quella strada porti lontano, ma perché cercano di ingraziarsi l´elettorato ultra-fondamentalista».
Quando aveva tre anni Fawzia Koofi perse il padre, un deputato assassinato dai mujahiddin che cercava di convincere a negoziare con il governo filo-sovietico. Dopo averlo ucciso, i mujahiddin andarono a cercare l´imam perché li autorizzasse ad ammazzare anche la madre di Fawzia, e a dare in sposa ad un mullah la sorella, all´epoca dodicenne. Le Koofi riuscirono a scappare; inseguite, furono salvate dai soldati russi. Questa tragedia non è estranea al dubbio di Fawzia: saranno leali con le afgane, questi occidentali che trent´anni fa le consegnarono ai mujahiddin? O di nuovo le sacrificheranno al loro interesse, ad una `pace´ con i Taliban? Ovviamente Fawzia sa che la Nato non è venuta in Afghanistan per promuovere la liberazione delle donne. Ma in queste sette anni sono accadute cose piuttosto sorprendenti per gli standard afgani. Innanzitutto questo: sparite dal panorama al tempo dei Taliban, le donne (alcune, poche: ma abbastanza per dare l´esempio) sono tornate nello spazio pubblico. Ospiti fisse della radio e della tv, le `Combattenti´ discutono di argomenti che secondo i fondamentalisti una musulmana non dovrebbe neppure sfiorare, dagli stupri in famiglia al diritto delle ragazze di rifiutare il marito imposto dai genitori. Negli ultimi mesi sono riuscite ad affondare la legge sul diritto familiare sciita, piuttosto misogina, e soprattutto a portare in parlamento un corpo di norme rivoluzionarie che Karzai ha approvato e presto andranno in discussione. Sanzionano i delitti d´onore, garantiscono l´impunità alle mogli che scappano di casa, proibiscono il baad, figura del diritto tradizionale per la quale la famiglia dello stupratore può sanare una violenza sessuale offrendo femmine, in genere bambine, alla famiglia della violentata (sicché uno stupro dà origine ad altri stupri). Neanche la Koofi si illude: quando fossero approvate, quelle leggi resterebbero largamente inapplicate. Eppure anche nei tribunali tira un vento nuovo, come dimostra in città come Herat l´alto numero di divorzi richiesti della moglie, impensabile pochi anni fa.
Ora però gli occidentali vorrebbero attrarre quegli alleati dei Taliban, innanzitutto l´organizzazione Hizb-islami, che per un malinteso sono chiamati `Taliban moderati´. In realtà non sono né Taliban né moderati, e anzi i guerrieri di Hizb-islami sono noti per sfregiare con il vetriolo le ragazzine che vanno a scuola. Per un buon ingaggio probabilmente ammorbidirebbero la loro misoginia, perfino fare atto formale di sottomissione ad una Costituzione che fa proprie le convenzioni internazionali sui diritti umani: non è probabile ma non lo si può escludere. In ogni caso, la tacita pre - condizione al compromesso in cui confidano innanzitutto gli afgani è che si metta metta la sordina alla `questione femminile´. E questo è un po´ quanto sta accadendo, se è esatto il titolo di un recente rapporto di Unama, la missione Onu in Afghanistan: "Il silenzio è violenza". Scritto con l´intenzione dichiarata di "riportare in agenda la fruizione dei diritti umani da parte delle afgane, una questione sempre più ignorata", il dossier dà un´idea esatta di quanto rischia una donna che assuma un ruolo pubblico e, implicitamente, di quel che accadrebbe a migliaia di afgane se la Nato si ritirasse. A Kandahar il consigliere provinciale Sitara Achakzai è stata «uccisa dai Taliban in aprile perché incoraggiava le donne a lavorare e a lottare per i loro diritti». Per punire Zarghuna Kakar, anche lei consigliere provinciale, i Taliban prima l´hanno dichiarata «infedele» e poi le hanno assassinato il marito.
Minacciare vendette sui familiari è diventata una prassi. Una parlamentare non manda più i figli a scuola per timore che li uccidano. Però non si dimette: «Questa è la nostra battaglia, e dobbiamo vincerla». Ma sono decine, riferisce il rapporto, le deputate che non si ricandideranno nelle elezioni del 2010. Tra le donne costrette a lasciare la politica molte sono state bollate come «comuniste» e «infedeli» dai Taliban o dagli imam nella preghiera del venerdì. A Herat un mullah ha incitato i fedeli a saccheggiare la sede di una Ong che si batte per i diritti delle donne, in quanto «centro di attività blasfeme»: e quella pia masnada subito l´ha esaudito.
Gli attacchi non vengono solto dai Taliban e dai loro alleati. In parlamento e nei consigli provinciale, ogni qualvolta è in discussione un argomento correlato con l´islam le deputate vengono zittite dalle urla dei colleghi fondamentalisti. Racconta Shahla Ata, ora candidata alla presidenza: «Non ci permettono di interloquire. Invocano l´autorità delle Scritture: il Corano dice questo, e l´argomento è chiuso». E Fawzia Koofi: «Parliamo di poveri, di donne, di bambini, dei loro diritti, e quelli ci gridano: questo vostro discorso non è islamico. Finché la religione non sarà de-politicizzata, continueranno a usarla come pretesto». Ma almeno i deputati fondamentalisti accettano che le bambine vadano a scuola e le donne possano lavorare come infermiere e come maestre. I Taliban neppure quello. Nei primi sei mesi del 2009 gli attacchi contro scuole hanno prodotto 13 morti e 14 feriti, oltre alle quindici alunne sfregiate a Kandahar con l´acido. Colpite dalla guerriglia, 700 scuole restano chiuse; 200mila ragazzine sono private del diritto di istruirsi. Oltre alle maestre, bersaglio privilegiato dei Taliban, sono afgane che lavorano per organizzazioni umanitarie straniere, nelle radio o in televisione. L´attrice Parwin Mushtakhel, la prima donna ad apparire in tv dopo la caduta dei Taliban, è stata costretta a espatriare, così come la cantante che aveva partecipato ad un concorso canoro trasmesso da una radio di Kandahar. Zakia Zaki, conduttrice di Radio Pace, è stata assassinata. Nilofar Habibi, 22 anni, conduttrice di una tv di Herat, è stata pugnalata sulla porta di casa, l´anno scorso (sopravvissuta, vive all´estero). Contro la casa di Khadija Ahadi, vicedirettrice di Radio Faryad, è stata lanciata una granata.
Agli occhi dei Taliban la colpa più grave di queste donne era l´aver messo in discussione costumi che il fondamentalismo considera `islam´, per esempio le regole che permettono un dilagare delle violenze carnali. In molte zone rurali la vittima rischia di essere giustiziata come `fornicatrice´ insieme allo stupratore, se lo denuncia. Oppure può essere obbligata a sposarlo. Non meno spaventoso è il baad, la transazione organizzata dai consigli degli anziani con cui il colpevole sana il suo crimine dando in sposa una sorella o una cugina a familiari della parte offesa. Secondo il fondamentalismo neppure il parlamento può legiferare su questi temi, tantomeno su iniziativa di svergognate come le `Combattenti´. Però nel vertice supremo dei Taliban qualcuno si dichiara disponibile a riconoscere la Costituzione e a negoziare un armistizio dentro quella cornice legale. Per esempio un importante mullah in contatto con i tagichi dell´Alleanza del nord, coloro che più di tutti hanno sondato la strada della trattativa. Eppure quei tentativi finora sono falliti, riconosce Fazel Sancharaki, capo della campagna elettorale di Abdullah Abdullah, il candidato dell´Alleanza del nord in queste presidenziali. «Abbiamo avuto incontri con tre distinte delegazioni», mi racconta Sancharaki. «L´una inviata dal mullah Omar. L´altra da Dadullah (il capobanda che sequestrò il giornalista Mastrogiacomo). La terza rappresentava la `rete Haqqani´ (un gruppo che ha legami storici con i servizi segreti pakistani)». Nessuna delle tre si dimostrò in grado di prendere una decisione, perché le organizzazioni di riferimento erano divise oppure frenate da `suggeritori´ esterni. Nel caso del misterioso Dadullah, per esempio, la trattativa sembrava ben avviata. «Ma al dunque Dadullah si sottraeva di continuo ad una scelta. Finché capimmo che non poteva decidere senza l´accordo di altri. E quell´accordo non gli era stato concesso».
Fawzia Koofi è convinta che l´unico argomento che possa convincere i Taliban sia un bombardiere americano. Il giudizio potrà scandalizzare ma corrisponde esattamente alla dottrina Obama: rafforzare la presenza militare, aumentare la pressione sui Taliban e costringerne almeno una parte a negoziare alle condizioni degli occidentali. Nel caso non funzionasse, nei governi Nato crescerà la tentazione di un baratto al ribasso in cui inevitabilmente entreranno i diritti minimi delle ragazze afgane.