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 2009  agosto 05 Mercoledì calendario

SIAMO FINITI DENTRO UNA GUERRA


Era tutto fuorché un segreto, il fatto che solo l’estrema ampiezza dello spettro dei singoli caveat nazionali, e l’elasticità nell’interpretazione dello spirito e dello stesso obiettivo della missione, fosse condizione tutt’altro che accessoria tra quelle che avevano permesso di arruolare, e mantenere, nell’Isaf un numero relativamente elevato di nazioni. Finora, ognuno dei Paesi che compongono l’Isaf ha sostanzialmente impostato la propria partecipazione secondo le proprie attitudini e convenienze, talvolta modificate in seguito al cambiamento della maggioranza di governo.
Di fronte all’offensiva scatenata dai talebani per cercare di impedire la celebrazione delle prossime elezioni presidenziali, questa elasticità è divenuta un’ambiguità insostenibile. La Gran Bretagna, che ha contato una media di un morto al giorno nel solo mese di luglio, ha sollevato platealmente il problema di una coalizione in cui alcuni combattono e altri stanno a guardare, magari nel frattempo discutendo di «soluzioni politiche», profilando «exit strategy», inseguendo la chimera dei «talebani moderati».
Intendiamoci molto bene. Gli stessi Usa che oggi chiedono, con scarso successo, più mezzi, più uomini e più determinazione ai recalcitranti alleati europei (giacché canadesi e australiani fanno la loro parte da tempo), sono tra i principali responsabili della situazione che si è venuta a creare in Afghanistan: pericolosa per il futuro di quel Paese, e rischiosa per il destino della Nato. Lo sono ovviamente per aver aperto il controverso fronte iracheno prima della chiusura di quello afghano nel 2003 (con la conseguente distrazione di truppe e attenzione e con la spaccatura causata all’interno dell’Alleanza Atlantica). Lo sono per avere lungamente escluso ogni responsabilità per la ricostruzione del Paese dopo la conclusione della campagna del 2002. Lo sono per essersi colpevolmente fidati del Pakistan doppiogiochista di Musharraf e dei suoi servizi segreti. Ma lo sono soprattutto per aver rifiutato quell’appoggio che, apertamente e non senza difficoltà, gli alleati avevano offerto agli Stati Uniti, in applicazione (per nulla scontata né automatica) dell’articolo 5 del Patto Atlantico. In quel momento, se gli Usa avessero accettato la profferta di aiuto europea, la coalizione che sarebbe sorta sarebbe stata priva di ambiguità, conscia del fatto che i Paesi membri stavano adempiendo al casus foederis che li chiamava a combattere una guerra contro un nemico comune. Sulla base di considerazioni militari opinabili e di valutazioni politiche che si sono rivelate fallaci, l’amministrazione Bush rifiutò tale aiuto e diede vita a un’operazione solitaria (Enduring Freedom), salvo poi chiedere il sostegno degli alleati per una missione dal carattere più ambiguo (Isaf), quando l’Iraq reclamava più truppe di quelle ipotizzate e la campagna afghana si rivelava tutt’altro che conclusa.
La Gran Bretagna di Tony Blair fu corresponsabile delle avventate scelte dell’amministrazione Bush, accettando di partecipare singolarmente alla campagna afghana (e poi a quella irachena), invece di aiutare Washington a comprendere che il rifiuto della collaborazione offerta dagli alleati era un clamoroso errore politico e militare, oltretutto foriero di nefaste conseguenze per la sopravvivenza stessa della Nato. In un certo senso, si potrebbe dire, Londra paga anch’essa i suoi errori. Ma riconoscere errori e responsabilità non basta. Occorre prendere atto della realtà e cercare le misure adeguate al mutato scenario afghano.
In Afghanistan, e non da oggi, la situazione è tale da richiedere non più peace-keeper, ma peace-warrior. Servono cioè truppe che combattano per riportare la pace nel Paese e non per mantenerne una ormai inesistente. E’ una sfida alla quale l’Alleanza non può sottrarsi. Non è per nulla accidentale che il contingente italiano sia sempre più attivamente coinvolto nei combattimenti. Questo, inevitabilmente, comporterà più perdite di quelle fin qui subite. Gli esperti ci dicono che l’opinione pubblica non è ancora preparata a una tale eventualità. Sarebbe opportuno che il governo si dedicasse a colmare questo gap, e, almeno in questo caso, non si limitasse a leggere i sondaggi, ma li sfidasse.