Simonetta Cossu, Liberazione 05/08/2009, 5 agosto 2009
Tra i monasteri buddisti di Lhasa dove scoppiò la rivolta dei monaci - A differenza di tanti altri contenziosi internazionali, sono pochi coloro che non sanno dove sia il Tibet e cosa lo ha sconquassato per anni
Tra i monasteri buddisti di Lhasa dove scoppiò la rivolta dei monaci - A differenza di tanti altri contenziosi internazionali, sono pochi coloro che non sanno dove sia il Tibet e cosa lo ha sconquassato per anni. Come giornalista poter visitare la città di Lhasa è stata una emozione, ed ha alimentato la curiosità di conoscere e capire quella grande regione ricca di storia. Partiamo dal dire che quando il funzionario di ambasciata mi chiese se soffrivo di mal di montagna, ho sogghignato e ho risposto superficialmente di no. Ma atterrando a Lhasa ho capito di cosa stesse parlando. Lhasa, che in tibetano significa "trono di Dio", è situata a 3650 m di altitudine nella valle del Kyi Chu. Il che significa che d’estate l’ossigeno è presente solo in percentuale del 65%, mentre in inverno può scendere al 50%. Il Tibet quindi è una regione che toglie il fiato, non solo per la sua bellezza, ma nel senso letterale del termine. Il Tibet è una delle cinque regioni auotonome della Cina, (le altre quattro sono Guangx, Mongolia interna, Ningxia, Xinjiang). La loro ragione di esistere è determinata dal fatto che i loro territori racchiudono minoranze etniche e che la costituzione cinese garantisce a queste maggiori diritti. Le regioni autonome dispongono della figura del presidente (le province regolari hanno dei governatori) che deve appartenere ad un gruppo etnico definito dalla regione autonoma (tibetano, uiguro ecc.). Altra peculiarità del Tibet è che nonostante sia la seconda per grandezza è decisamente la meno popolata. In Tibet vivono 2,81 milioni di persone, e stando ai dati cinesi il 92% è di etnia tibetana. Tra le esenzioni previste dal governo centrale è permesso ai tibetani di avere più figli, a differenza dei cinesi di etnia Han. Questo diritto avrebbe, sempre secondo fonti cinesi, portato ad un incremento della popolazione, aiutata anche dal miglioramento delle condizioni sanitarie e sociali (l’aspettativa di vita oggi è di 67 anni rispetto a quella del 1959 che era di 35). La presenza cinese comunque a Lhasa è abbastanza visibile, molti negozi e piccole imprese sono gestite da questi neo immigrati arrivati per far fortuna. Dal 1959, data della fuga dal Tibet del XIV Dalai Lama, lo scontro tra il governo in esilio e il potere centrale è uno dei nodi più spinosi con cui la Cina si deve confrontare. Il Tibet ha una storia millenaria, ricca e densa che è difficile riassumere. I cinesi affermano che il Tibet è sempre stato parte del loro impero. Mentre una parte dei tibetani invece rivendica un’indipendenza che, affermano, affonda la legittimità nella Storia. Spulciando la storia del Tibet si scopre che nel tredicesimo secolo, l’imperatore Kublai Khan creò il primo Grande Lama, che avrebbe dovuto presiedere tutti gli altri Lama, così come farebbe un papa con i suoi vescovi. Parecchi secoli dopo, l’imperatore della Cina inviò un esercito in Tibet per sostenere il Grande Lama, un ambizioso venticinquenne che si autoconferì il titolo di Dalai (Oceano) Lama, signore di tutto il Tibet. Ironia della storia quindi vuole che il primo Dalai Lama fu investito della propria carica da un esercito cinese. In 170 anni, malgrado il loro stato riconosciuto come dei, cinque Lama di Dalai sono stato assassinati dai loro gran sacerdoti o da loro altri cortigiani. Senza dilungarci troppo, i tibetani di fatto hanno conosciuto secoli di alterne vicende, con periodi di indipendenza e periodi di sottomissione ai potentati del tempo, ad esempio fu dominata dai mongoli di Gengis Khan, sempre, però, mantenendo una quasi completa autonomia amministrativa. La storia del Tibet è costellata da guerre assurde, da superstizioni, da violenze, (come la tortura "Ling chi" - la morte dei mille tagli (i tagli sono tutti piccoli, ma alla fine la persona muore dissanguata) - decretata ai reciproci oppositori politici, da trame regali, colpi di stato, intrighi, e dalla spontanea sottomissione per secoli alla Mongolia e poi alla Cina pur di conservare il potere dei monasteri sulle popolazioni tibetane. Una storia non diversa da quella che ha attraversato l’occidente. Per lungo tempo in Tibet, e parliamo degli anni precedenti all’occupazione cinese, vi era una vera e propria teocrazia governata da leggi barbare e sorretta da un rigido sistema feudale di servitù della gleba. Nel 1950 l’Esercito di liberazione popolare, facente capo alla Repubblica Popolare Cinese guidata da Mao Zedong, invase il Tibet, adducendo, come motivazioni verso l’esterno, il fatto che il Tibet con la Cina, 39 anni prima, erano un unico stato. Nel 1956 il Governo cinese costituì il Comitato Preparatorio per la Regione Autonoma del Tibet. Tenzin Gyatso (XIV Dalai Lama) presiedeva il comitato, ma si rese conto che gli altri appartenenti erano molto dipendenti dalle decisioni del governo centrale. Nel 1957 scoppiò una rivolta nel Tibet orientale che si estese a Lhasa nel 1959. Nello stesso anno l’Esercito di liberazione popolare schiacciò la rivolta e indusse il Dalai Lama alla fuga e il 17 marzo lasciò il Palazzo del Norbulingka travestito da soldato e scappò in India dove costituì il Governo tibetano in esilio. Da allora ad oggi lo scontro tra il Dalai Lama in esilio e Pechino ha costellato la storia più recente. Sono stati almeno nove gli incontri tra i rappresentanti del XIV Dalai Lama e quelli del governo cinese nel tentativo di trovare una soluzione, ma le posizioni restano distanti. Le autorità cinesi riconoscono l’autorità religiosa del Dalai Lama, e ammettono anche la sua influenza in quanto è riconosciuto dai buddisti come la reincarnazione del Buddha. La loro opposizione è al Dalai Lama come leader politico. Negli incontri che abbiamo avuto con i rappresentanti del governo tibetano la loro posizione è netta: la porta è sempre aperta per il Dalai Lama e si dicono pronti a discutere del futuro della sua persona, ma non ci sono margini di trattativa per quanto riguarda ogni discussione di autonomia o indipendenza regionale. L’integrità teritoriale è per la Cina una delle questioni che non possono essere messe in discussione ne dal Dalai Lama, ma nenache dai partners europei o occidentali. E’ questo il vero nodo che Pechino contesta ai sostenitori del Dalai Lama e che hanno più volte portato Pechino a condannare con durezza i riconoscimenti, anche solo informali, concessi al leader religioso in esilio. Un problema serio si porrà quando l’attuale Dalai Lama morirà. Il Dalai Lama era ed è attualmente venerato come manifestazione del Buddha della Compassione Chenresig. La reincarnazione è da sempre lo strumento della successione: quando un Dalai Lama muore, le sue funzioni vengono ereditate da un Reggente, che guida la ricerca della sua reincarnazione tramite le premonizioni, i responsi degli oracoli ed i segni divini. Il potenziale candidato viene sottoposto ad una serie di prove atte a ricordare la vita precedente. Se l’esito risulta positivo egli è riconosciuto come reincarnazione del suo predecessore. Il diritto di nominare il futuro Dalai Lama spettava ai soli lama tibetani. Ma Pechino non intende riconoscere questa formalità e pretende di avere il potere di nomina del successore. Il primo passo da parte dei cinesi in questa direzione è stato compiuto nel 1995 quando rapirono la supposta reincarnazione del decimo Panchen Lama. Il Panchen Lama è la seconda autorità spirituale del Tibet, sottoposta solo a quella del Dalai Lama, determinante per il ritrovamento della reincarnazione del Buddha della Compassione, il quale a sua volta è determinante nel ritrovamento della sua. Il potenziale undicesimo Panchen Lama fu identificato dall’attuale Dalai Lama nella persona di Gedhun Choekyi. Dal 1995 non si hanno più notizie né del Panchen Lama, né della sua famiglia, che ufficialmente sono posti sotto la "tutela protettiva" del governo di Pechino che sempre in quella data nominò un nuovo Panchem Lama che oggi risiede nella capitale. Nel settembre 2007, la Cina ha affermato che tutti gli alti monaci tibetani dovranno essere nominati dal suo governo e che, in futuro, questi dovranno eleggere il 15° Dalai Lama, sotto la supervisione del loro Panchen Lama. Il vero problema è che l’unico titolare che non è mai stato ascoltato, da una parte e dall’altra, è il popolo tibetano. Impossibile in quattro giorni di visita capire cosa e quale siano i sentimenti di questa popolazione rispetto all’intera questione. Quello che ci resta nella memoria sono i magnifici templi buddisti, dove decine di fedeli, poveri, ricchi e stranieri, si recano a rendere omaggio ai diversi Buddha. Un rito che colpisce perchè compiuto con vera devozione. Le statue dei grandi Buddha sono ricoperti di doni e di soldi. Piccole banconote dal valore infitesimale, circa 5 centesimi di euro, che vengono infilate nelle pieghe, nelle bacheche di queste statue e sono destinate al sostentamento dei monaci che vivono nel monastero. L’altra cosa che colpisce è la totale assenza di ogni riferimento all’attuale Dalai Lama. Nessuno lo cita, nessuna delle guide ne parla. E come se la figura del papa scomparisse da San Pietro. Oggi in Tibet ci sono oltre 1700 luoghi di culto e 46 mila monaci che vivono nei monasteri e si sostengono con le donazioni dei fedeli e di un piccolo giro di vendite di oggetti di culto o turistici. Il governo riconosce ai più poveri e agli anziani un sussidio per vivere. Molti parlano solo tibetano, e qualcuno anche l’inglese. Quanto accaduto lo scorso anno non ha lasciato segni tangibili nelle strade di Lhasa affollate di mercanti e turisti, ma ha sicuramente lasciato un segno nelle autorità locali. La protesta nel marzo del 2008 alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino ha riacceso i riflettori mediatici sulla questione. Quando a Lhasa esplose la rivolta il governo cinese scelse la censura impedendo a giornalisti e a chiunque altro di recarsi nella regione per raccontare quello che stava accadendo. Risultato ancora oggi non si sa veramente cosa accadde: quanti furono uccisi o arrestati, se la protesta avesse coinvolto la popolazione locale. Oggi la responsabile dell’Informazione del governo locale lo ammette senza reticenze: «Sbagliammo a impedire ai mezzi di informazione di raccontare quanto stava accadendo. Adesso lo sappiamo, ma dagli errori si può imparare molto». Ma il vizio è difficile da perdere. Alla richiesta di informazioni su quanti monaci furono arrestati e dove sono finiti la risposta è stata laconica: «Hanno violato la legge e sono stati puniti». Va registrato però che la lezione tibetana sta modificando, almeno in parte, l’atteggiamento del governo centrale. Nella recente rivolta nella regione autonomo dello Xinjiang Pechino ha optato per una forma di apertura permettendo anche ai media cinesi di riportare quanto stava accadendo e hai giornalisti stranieri di recarsi sul posto. La questione politica tibetana resta in ogni caso aperta e non si vedono soluzioni diplomatiche all’orizzonte. Una cosa invece appare chiara, il Tibet di oggi è una regione che assomiglia sempre di più alla Cina moderna dove predominano le parole d’ordine dell’impero: crescita, sviluppo e apertura. E dove l’indipendenza appare più una utopia che una reale soluzione possibile.