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 2009  agosto 06 Giovedì calendario

Notizie tratte da: The Paris Review. Interviste Volume 1, Fandango 2009, traduzione di Francesca Valente, pp

Notizie tratte da: The Paris Review. Interviste Volume 1, Fandango 2009, traduzione di Francesca Valente, pp. 509, 22 euro.

Il disprezzo di Dorothy Parker per l’impazienza con cui la gente attendeva le sue battute: «Diamine, era una cosa così insopportabile che cominciassero a ridere prima che io aprissi bocca».

«Adesso le redattrici di Vogue sono come dovrebbero essere, eleganti e mondane, la maggior parte delle modelle sembrano uscite dalla mente di un Bram Stoker, e chi scrive le didascalie – il mio lavoro di allora – consiglia di regalare fodere di visone per i manici in legno per le mazze da golf: ”Per l’amico che ha già tutto”» (D.P.).

«Con quest’abitino rosa i giovanotti cadranno ai vostri piedi» (esempio di didascalia che D.P. si scriveva su Vogue).

D.P. era abbonata a due riviste per gli addetti alle pompe funebri: The Casket (Il feretro) e Sunnyside (Il lato buono). Sunnyside aveva una rubrica umoristica intitolata ”Dalla fossa alla riscossa”.

A Life D.P.. e Benchley dividevano un uffucio «talmente piccolo che un paio di centimetri in meno e sarebbe stato adulterio».

«I collegi fanno le stesse cose che fanno le scuole progressiste: non ti insegnano a leggere. L’unica cosa che ho imparato in collegio è che se si sputa sulla gomma da matita si riesce a cancellare l’inchiostro» (D.P.).

Qual’è la fonte di ispirazione per il suo lavoro?
«Il bisogno di soldi, mia cara» (D.P.).

«E’ più facile scrivere di coloro che si odia» (D.P.).

C’è una differenza profonda tra fare dello spirito e avere uno spirito pungente e raffinato. Il senso dello humor mordace contiene una verità, mentre chi dice spiritosaggini, per quanto salaci, fa ginnastica ritmica con le parole» (D.P).

D.P. prendeva i nomi dei suoi personaggi dall’elenco telefonico e dai necrologi.

«Il denaro di Hollywood non è denaro, ma neve ghiacciata che ti si scioglie in mano» (D.P.).

Hollywood secondo D.P.: «Una volta, mentre camminavo per una strada di Beverly Hills, vidi una Cadillac lunga quanto un paio di case, e fuori dal finestrino le curve flessuose di una pelliccia di visone dalla quale spuntava un braccio, e alla fine del braccio una mano stretta in un guanto di pelle scamosciata bianca che si arricciava intorno al polso, e nella mano una ciambella morsicata».

«Se quello che vuoi fare è scrivere non devi fingere che tu stia soltanto prendendo un paio di appunti a caso. Avrai scritto la cosa migliore di cui sei capace: e a tagliarti le gambe è proprio il fatto che quello sia il massimo che sai fare» (D.P.).

«Henry James è l’esperto del punto e virgola. Hemingway è uno scrittore di capoversi di prima classe. Dal punto di vista del suono, Virginia Woolf non ha mai scritto una frase fatta male» (Truman Capote).

«Non scrivo mai – sono proprio incapace fisicamente di scrivere – qualcosa che non mi verrà pagato» (T.C.).

«Dickens, quando scriveva, si strozzava dalle risate per il suo stesso umorismo e riempiva il foglio di lacrime quando moriva uno dei suoi personaggi. La mia teoria è che uno scrittore dovrebbe asciugarsi le lacrime ed esaurire le risate prima, molto prima di cercare di evocare le stesse emozioni nello scrittore. In altre parole, credo che l’intensità maggiore nell’arte si ottenga usando la testa in modo deliberato, duro e freddo» (T.C.).

«Leggo qualsiasi cosa, incluse le etichette, le ricette e le pubblicità. Ho una passione per i giornali – leggo tutti i quotidiani di New York, le edizioni della domenica e anche le riviste straniere. Quelli che non compro me li leggo davanti all’edicola. In media leggo circa cinque libri alla settimana – un romanzo di lunghezza normale me lo leggo in un paio d’ore» (T.C.).

«Tra i tredici e i sedici anni: è quella l’età ideale, se non l’unica, per soccombere a Thomas Wolfe – allora mi sembrava un grande genio, e lo penso tuttora, anche se non riesco più a leggerne neanche una riga. Proprio come per altre passioni giovanili: Poe, Dickens, Stevenson. Li adoro nella mia memoria, ma li trovo illeggibili» (T.C.).

«Il cinema ha sviluppato un solo scrittore che, lavorando solo come sceneggiatore, si può definire un genio cinematografico. Sto parlando di quel contadino timido di Zavattini. Che senso visivo! L’ottanta per cento dei film italiani di qualità è stato costruito da una sceneggiatura di Zavattini – tutti i film di De Sica per esempio. De Sica è un uomo affascinante, una persona dotata e profondamente sofisticata; nonostante ciò è per la maggior parte un megafono di Zavattini, i suoi film sono creazioni assolute di Zavattini: ogni sfumatura, emozione, ogni parte è chiramente indicata nei copioni di zavattini» (T.C.).

«Sono un autore totalmente orizzontale. Non riesco a pensare se non sono sdraiato, sul letto o sul divano, e con una sigaretta e il caffè a portata di mano. Devo fumare e sorseggiare. A mano a mano che passa il pomeriggio passo da caffè al tè alla menta allo sherry al martini. Non uso la macchina da scrivere. Non all’inizio. Scrivo la mia prima versione a matita. Poi faccio una revisione completa essenzialmente a mano. Poi batto una terza bozza su carta gialla, un tipo molto speciale. No, non esco dal letto per farlo. Mi metto la macchina da scrivere in equilibrio sulle ginocchia. Funziona benissimo; riesco a battere un centinaio di parole al minuto. Quando è finita la copia gialla, metto via il manoscritto per un po’: una settimana, un mese, a volte di più. Quando lo tiro fuori lo leggo nel modo più freddo possibile, poi lo leggo a voce alta a un amico o due, e decido che cambiamenti voglio fare e se voglio o no pubblicarlo. Ho buttato via svariati racconti, un romanzo intero e un altro mezzo. Ma se va tutto bene ne batto una versione finale su carta bianca e ecco fatto» (T.C.).

«Più di qualsiasi altra cosa volevo essere un ballerino di tip-tap. Mi esercitavo nei passi in casa fino a che mi volevano uccidere tutti. Poi volevo suonare la chitarra e andare per night club» (T.C.).

«Do cinquanta dollari a chi mi presenta uno scrittore che mi dica onestamente che è stato aiutato dai pignoli cavilli e dalle accondiscendenze dei critici» (T.C.).

«Non bisogna mai abbassarsi a rispondere a un critico, mai» (T.C.).

Le pantofole e i mocassini sfondati di pelle di cudù tutta consunta che Ernest Hemingway calzava quando si metteva a scrivere. H. fin dall’infanzia ha sempre scritto in piedi. Nella casa di San Francisco de Paula, alla periferia di L’Avana, accanto alla finestra rivolta a est della camera da letto, teneva un tavolo da lavoro di un metro quadro scarso, alto fino all’altezza del petto, appena lo spazio per la macchina da scrivere, sormontata da un asse di legno per appoggiarsi durante la lettura.

H. iniziava sempre scrivendo a matita su fogli di carta velina tenuti in un blocco con molla a sinistra della macchina da scrivere sul quale era scritto ”Bollette da pagare”. Giorno dopo giorno annotava i suoi progressi – ”Tanto per non barare” – su un grosso tabellone ricavato dal fianco d’una scatola da imballaggio e appeso alla parete sotto il naso di una gazzella impagliata. Il giorno in cui Paris review gli fece l’intervista (1958), le cifre sul tabellone indicano il numero di parole tirate fuori ogni giorno, e variano da 450, 575, 462, 512, fino a 1250 per poi tornare di nuovo a quota 512.

«Quando lavoro a un libro, comincio a scrivere la mattina, alle prime luci dell’alba. Non c’è nessuno che mi disturbi, e poi fa fresco, talvolta freddo, così mi scaldo lavorando» (E.H.).

«Di Addio alle armi ho scritto la fine, l’ultima pagina intendo, trentanove volte» (E.H.).

H. considerava proficua la sua giornata di lavoro quando arrivava a consumare sette matite n. 2 al giorno.

«Le cose che rendono impossibile lavorare sono il telefono e la gente che passa a trovarti» (E.H.).

La migliore preparazione intellettuale per un aspirante scrittore secondo H.: «Diciamo che dovrebbe uscire di casa e impiccarsi, dopo aver preso atto di quanto sia difficile scrivere bene, anzi forse quasi impossibile. Poi, tirato giù da qualcuno privo di compassione, il poveretto dovrebbe forzarsi a scrivere meglio che può, per tutta la vita. Ma almeno avrebbe la storia dell’impiccagione con cui cominciare».

«Qualunque cosa lo scirttore conosca a fondo, e decida di omettere nel testo, verrà comunque fuori nella parola con tutta la propria forza. quando lo scittore omette qualcosa che ignora, che nel testo compiono i vuoti» (E.H.).

«Il fatto che io interrompa un lavoro serio per rispondere a queste domande dimostra la mia stupidità, e per questo dovrei essere punito severamente. Ma stia certo che lo sarò» (H. all’intervistatore dopo la domanda Riesce a passare con facilità da un progetto all’altro, oppure una volta che ha cominciato a lavorare su qualcosa preferisce portarlo a termine?).

«Sopravvivere, con onore, è molto difficile ma quanto mai vitale per uno scrittore. Quelli che non ce la fanno sono sempre i più amati, perché nessuno li vede impegnati nella loro lunga, estenuante, inesorabile lotta per fare le cose nella maniera in cui lo ritengono giusto, e concluderle prima di morire. Quelli che muoino giovani e per delle buone ragioni li si preferisce sempre perché si fa meno fatica a capirli, dato che risultano umani. La sconfitta e la codardia, anche se celata, sono umane e dunque apprezzabili» (E.H.).

«La cosa più importante per uno scrittore è di sviluppare un merdadetector a prova d’urto» (E.H.).

T.S. Eliot dopo un’ora di serie disquisizioni letterarie con un giovane poeta che stava per andare a Oxford, pensando a un ultimo consiglio da dare al ragazzo gli suggerì l’acquisto di biancheria di lana per difendersi dall’umidità delle case di Oxford.

Eliot non dedicava alla scrittura più di tre ore al giorno («mettiamo dalle dieci all’una»).

«In poesia si scrive per la propria voce» (T.E.).

«Penso che per sia stato molto utile esercitare altre attività, come lavorare in banca. E penso anche che la difficoltà creata dall’avere meno tempo a disposizione di quanto ne avrei voluto mi abbia dato grande urgenza nella concentrazione» (T.E.).

«Le metafore non mi interessano più perché penso che fossero più che altro una gran noia per i poeti spessi. Doverle ripetere, usarle e riusarle, e continuare a dire ”strada della balena” invece di ”mare”... questo genere di cose... e dire ”legno di mare” e ”destriero del mare” invece di ”nave” (Jorge Luis Borges).

«La tradizione epica è stata salvata per il mondo nientemeno che da Hollywood» (J.L.B.).

Storia dell’eternità di Borges fu pubblicato per la prima volta nel 1936 e ne furono vendute trentasette copie.

« come se il mondo oggi fosse la cenere di un fuoco arso ieri» (J.L.B.).

Truman Capote e Jorge Luis Borges, tremendamente supersitiziosi.

Ormai praticamente cieco Borges riusciva a distinguere solo il giallo.

La passione di Borges per i tanghi «dell’epoca precedente a quella in cui il tango fu rovinato dagli italiani: voglio dire l’epoca in cui i tanghi venivano dalla criolla». «Ricordo di aver incontrato uno di questi uomini, Ernesto Poncio. Fu lui a scrivere Don Juan. Un giorno mi disse: «Sono stato in prigione molte volte, signor Borges, ma sempre per omicidio!».

Stevenson disse che in una pagina ben scritta tutte le parole dovrebbero avere lo stesso aspetto.

«Shakespeare è davvero altisonante, accumula parossismi su parossismi. Non so perché, ma io in S. sento qualcosa di italiano, qualcosa di ebraico, e forse gli inglesi lo adorano per questo, perché è così diverso da loro» (J.L.B.).

«Io immagino che Shakespeare scrivesse sempre di fretta, tutto qui. Scrivendo di fretta non si ha il tempo di sentire che questa dovrebbe essere l’ultima parola. Lui invece continua con le sue metafore e le sue frasi altisonanti. Perfino in una frase famosa come le ultime parole di Amleto: ”Il resto è silenzio”. C’è qualcosa di falso in essa; è fatta apposta per colpire. Si sente che S. sta pensando: ”Beh, ora Amleto principe di Danimarca sta morendo: devo dire qualcosa che colpisca”. Ed ecco che ricorre a quella frase. Ora, sarà anche un’espressione che colpisce, ma non è vera. In questo momento S. sta facendo da travet il suo lavoro di poeta e non sta pensando alla verità del suo personaggio» (J.L.B.).

«Penso che un poeta abbia cinque o sei poesie da scrivere, non di più. Poi si sforza di riscriverle da diversi punti di vista, magari con trame diverse e in età diverse della sua vita e con personaggi diversi, ma le poesie sono essenzialmente le stesse» (J.L.B.).