Boris Biancheri, La stampa 4/8/2009, 4 agosto 2009
IL GIAPPONE SI GIOCA IL FUTURO
Del Giappone si parla poco. I media di tutto il mondo lo menzionano di solito quando gli animalisti lo attaccano per la pesca alle balene o se c’è stato un terremoto. In Italia se ne è parlato recentemente in relazione a un calo dei visitatori giapponesi nel nostro Paese e ad un conto astronomico presentato a due ignari turisti in un noto ristorante romano. (Avendo vissuto per sei anni in Giappone, dirò tra parentesi che un conto di 1000 euro per due non è del tutto sorprendente in certi raffinatissimi ristoranti di Tokyo o di Kyoto). Comunque sia, è un fatto che quel che accade in Giappone, seconda potenza economica al mondo dopo gli Usa, sembra suscitare poco interesse. Si versano fiumi di parole e di inchiostro sulla Cina e sull’India, sull’impatto che l’evoluzione delle loro economie avrà a livello planetario, ma il Giappone, il cui prodotto lordo è più del doppio di quelli di Cina e India messe insieme, viene solitamente trascurato. Ed è ancor più strano in quanto esso si trova di fronte a una possibile rivoluzione copernicana, quella del possibile ritorno della politica nella vita pubblica del Paese.
Da più di 50 anni, un solo partito, il Partito Liberal Democratico (Pld), nato circa dieci anni dopo la guerra, ha costantemente dominato la vita giapponese. Questo monopolio di fatto di una sola parte politica, di orientamento moderato-conservatore che ricorda un poco la Democrazia cristiana in Italia tra gli Anni 50 e 80, non ha impedito tuttavia un corretto funzionamento degli strumenti democratici né ha creato tendenze dittatoriali nei suoi vari leader: altri partiti sono sorti, esistono ma non vincono; i primi ministri non diventano dittatori anche perché si alternano con ritmo vertiginoso e durano mediamente in carica un anno o poco più. Il Partito Liberal Democratico, in ogni caso, resta al potere.
Più che un partito, se vogliamo, il Pld è lo Stato stesso, fortissimamente radicato sul territorio attraverso i piccoli proprietari agricoli, strettamente connesso all’industria, alla finanza, al commercio e soprattutto alla burocrazia che gestisce di fatto, in luogo e per conto del governo, l’intero Paese. Quanto al capo del governo di turno, esso fa pensare a un monarca a tempo limitato, molto spesso con tradizioni politiche familiari: Taro Aso, l’attuale primo ministro, è nipote di un primo ministro, genero di un altro primo ministro e cognato di un principe della casa imperiale. Perché si pensa che questo gigantesco apparato, che ha permesso la creazione di un benessere diffuso e di una potenza industriale colossale, possa venir meno? Perché ci interroghiamo seriamente se il Pld resterà al potere anche dopo le prossime elezioni della Camera bassa, il 30 agosto?
Si pensa istintivamente alla recessione, che ha toccato naturalmente anche il Giappone, seppur non finora in modo devastante: le esportazioni hanno subìto una notevole flessione ma c’è qualche segno di ripresa, il sistema finanziario complessivamente ha retto, la disoccupazione è cresciuta ma resta a livelli tollerabili (5,6%), il mito giapponese del posto di lavoro a vita si è incrinato negli ultimi tempi e il precariato comprende quasi il 30% della forza lavoro, ma ciò risponde oltre che agli interessi degli imprenditori anche a certe aspirazioni giovanili verso prospettive di vita di maggiore mobilità e scelta. Forse è proprio in questo atteggiamento psicologico, che si estende a parte della borghesia, che sta il nodo del Giappone odierno. Esso vive da mezzo secolo una stagione prospera ma immobile, socialmente e costituzionalmente, sia sul piano interno sia su quello internazionale.
Il partito rivale, il Partito Democratico del Giappone (Pdj), che da cinquant’anni sta all’opposizione, prova a dare una scossa. I suoi leader, l’attivissimo Hatoyama, e il suo fantasioso braccio destro Ozawa, hanno lanciato un programma di riforme ambizioso che va dai sussidi alle famiglie numerose, alla diminuzione della fiscalità per la piccola impresa, all’abolizione dei pedaggi stradali e soprattutto all’impegno che a guidare il Paese sarà d’ora in poi non la burocrazia, ma la politica, non i funzionari (che si propone comunque di sfoltire), ma gli eletti dal popolo. Taro Aso ha risposto con un ironico manifesto in cui sfida il rivale a trovare i fondi necessari al suo programma e intanto ha anticipato le elezioni per evitare che l’opinione pubblica continui a scivolare verso chi promette il nuovo.
Abbiamo dunque qualcosa che non si era visto prima, una vera lotta politica testa a testa tra due partiti, e una lotta, per di più, che i dati attuali sulle intenzioni di voto indicano come molto aperta. E la posta in gioco è questa: deve cambiare, il Giappone, o deve restare sostanzialmente ciò che è stato in tutti questi anni? Dobbiamo conservare il vecchio o scegliere il nuovo?
E’ un interrogativo che serpeggia anche in altre democrazie, per esempio in Europa dove le opinioni pubbliche si chiedono come restare al passo con i tempi ma dove lo spettro della recessione sembra piuttosto favorire chi conserva rispetto a chi innova. Quel che è sicuro è che non c’è posto al mondo dove il vecchio è più vecchio e il nuovo più nuovo che in Giappone.