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 2009  agosto 03 Lunedì calendario

IL LADRO DI EUFRONIO "MI PENTO, NON CAPII CHE FOSSE UN TESORO"


Avevo in mano le buste. Stavo sotto la greppa. Ho sentito passi… s’avvicinavano. Due passi, poi niente. Altri due passetti… Paura. Stavo a morì. Altri due passetti… E poi ha dato una sbruffata de muso. Meno male: ”Non sono carabinieri, so’ somari!”». Ancora se la ricorda, Francesco Bartocci, quella gran strizza finita in un raglio liberatore, lui raggomitolato nell’ombra sotto uno strapiombo di tufo – la «greppa» ”, fra le braccia i sacchi coi frammenti d’un vaso appena ritrovato in una tomba etrusca scavata nottetempo – notte dopo notte – dentro una forra della campagna di Cerveteri.
Roba grossa, importante. I «titolari del lavoro» – ovvero i tombaroli ufficiali, per così dire, quelli che hanno identificato il sepolcro, l’hanno esplorato e depredato – se ne sono accorti subito, d’aver trovato «er tartufo». Bartocci, che all’impresa è stato aggregato dopo («Uno di questi tombaroli era mio cognato, è venuto a cercarmi perché avevo un furgoncino, un’Ape: ”Vieni a darci una mano, che lì c’è parecchia roba”»), Bartocci, dicevamo, è fuori dallo scavo, a far da palo, e quelli emergono da sottoterra tutti emozionati: «’Corri, corri” – e mi danno ”ste buste. Io via per i macchioni…».
Quella sera – «Era il 1971, fine autunno, novembre forse, il giorno non me lo ricordo proprio…» – dopo duemilacinquecento anni passati nel regno dei morti, riaffiorava nel mondo dei vivi, a pezzi e nascosto in un paio di sacchi, un cratere dipinto nel sesto secolo prima di Cristo dal greco Eufronio, il più grande pittore di vasi del mondo ellenico. Autentico capolavoro e status symbol dell’epoca – «Gli Etruschi collezionavano Eufronio come i ricchi americani dell’Ottocento collezionavano Rembrandt», ha scritto sul «New York Times» Michael Kimmelman, recensendo il libro «The Lost Chalice: The Epic Hunt for a Priceless Masterpiece» che il giornalista-archeologo Vernon Silver ha dedicato alle vicissitudini del vaso ”, la splendida e fragile opera non interessava affatto, però, i predatori dell’antica Roma, gli unici ad aver preceduto i tombaroli moderni. I pezzi del vaso stavano disseminati per terra, perché i saccheggiatori romani a caccia d’oro rovesciavano e spaccavano tutto nel loro affannoso frugare.
Francesco Bartocci ha 70 anni, fa l’agricoltore, vive con la famiglia in una casa nella parte alta di Cerveteri ed è l’unico sopravvissuto dei cinque tombaroli che parteciparono al ritrovamento del vaso di Eufronio. Proprio per via di quel vaso siamo andati a trovarlo. Uscito in frantumi dalla terra alla fine del 1971, nel 1972, ricomposto nella sua gloriosa bellezza, era già in mostra – pezzo forte della collezione di vasi antichi – al Metropolitan Museum di New York, comprato dall’allora direttore Thomas Hoving al prezzo, per quei tempi astronomico, di un milione di dollari. Restituito all’Italia un anno fa, il cratere, benché greco, è ora esposto al Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma. Dell’intricata vicenda che l’ha portato dalla Grecia all’Etruria e da lì, secoli dopo, alla Svizzera (tramite il ricettatore Giacomo Medici, «Giacomino» per i tombaroli) e agli Stati Uniti fino al recente rimpatrio ha scritto, l’abbiamo detto più sopra, il giornalista-archeologo Vernon Silver in un libro appena uscito in America. E – sorpresa – dalle molte ombre che si allungano su protagonisti e comparse della vicenda, solo i tombaroli non sembrano sfiorati. Pur agendo di nascosto, par quasi che solo i tombaroli abbiano lavorato a viso aperto. In questo come in altri casi. Basta ascoltare Bartocci per rendersene conto.
«Prima la roba si vendeva meglio – informa con la stessa schiettezza con cui parla del prezzo degli ortaggi ”. Adesso le leggi sono diventate più dure. Lo Stato controlla di più». «La verità è che non c’è più roba buona», lo contraddice la sorella. Mannò, la roba buona c’è sempre, ce n’è ancora, eccome, la rintuzza il fratello. E ricorda che una decina di anni fa – «stavano allargando la strada di Bracciano» – ecco che durante i lavori salta fuori una tomba intatta: «Ce l’avevamo sotto il culo. Mannaggia la miseria».
Una partecipazione emotiva tutta teorica, comunque. «Dopo quel lavoro (lo scavo del vaso di Eufronio, ndr) non ho più partecipato a niente», assicura Bartocci. Ne ha ricavato dei bei soldi? «No, poco. Perché ero un aggiunto, non ero del mestiere. I titolari hanno preso qualcosa, ma poi, quando hanno saputo quanto era stato pagato il vaso, hanno capito di essere stati presi in giro». D’altra parte, osserva saggia la moglie di Bartocci, «della roba bisogna liberarsi subito, per non farsi vedere». E se certi prezzi i tombaroli non se li immaginano, non per questo sono degli sprovveduti: «Hanno libri d’arte. Dove vengono raccontate le storie etrusche e mostrati i reperti».
Andar per tombe, insomma, ancorché vietato dalla legge, è per i cerveterani impresa onorevole. Ne parlano senza infingimenti (il che non significa che un tombarolo in attività vada a confidarsi con un giornalista: ci ho provato, non ne ho cavato nulla), e capisci che quel che sta nel loro sottosuolo lo «sentono» come roba di proprietà, a disposizione di chi ha abbastanza fiuto da trovarlo. Il possibile guadagno, in molti casi, è uno stimolo secondario. «C’è gente che ha un buon mestiere – informa Bartocci ”, eppure alla sera esce a cercar tombe. per l’adrenalina della scoperta». Lo strumento che la trasmette, un lungo piolo detto «spido» che serve a saggiare il terreno («Se po’ spidà solo d’inverno, quando la terra è molle per la pioggia»), è l’unico arnese investigativo del tombarolo. Quando crede di avere individuato qualcosa, comincia a scavare. E spesso l’aspetta una delusione. Non fu così quel novembre del 1971. «Bisognò scavare un pozzo di cinque metri – ricorda Bartocci ”. Alla fine si trovò il selciato di una strada. Allora ricominciammo a scavare, questa volta un tunnel in orizzontale, lungo la strada, per una ventina di metri. Scoprimmo cinque tombe». Oltre al vaso di Eufronio, saltarono fuori numerosissimi altri pezzi. Nel complesso il lavoro durò tutto l’inverno, su e giù da quei cunicoli umidi e gelati. Uno dei titolari, Adriano Presciutti, si beccò un’artrite che gli durò tutta la vita.