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 2009  agosto 03 Lunedì calendario

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Sono gli euro investiti o elargiti a fondo perduto dallo Stato in quarant’anni
con la Cassa per il Mezzogiorno. Molte opere realizzate, molte incompiute

Basta nominarla, la Cassa del Mezzogiorno, e subito viene da pensare a sprechi di miliardi, a migliaia gettati al vento. A viadotti incompiuti ricoperti da erbacce. A immense dighe di cemento sospese su torrenti completamente privi di acqua. A fabbriche abbandonate, assurdamente inerpicate su montagne desolate. Ma non è vero. La Cassa del Mezzogiorno è stato altro, una cosa grande e titanica come le cose che si facevano negli anni ”50 e ”60 in questo paese, quando - rifacendosi al New Deal rooseveltiano - si pensava ancora che con tanti soldi e tanta programmazione si potesse accelerare in modo drastico lo sviluppo di interi territori. Ed è stata anche il simbolo della debolezza e del fallimento della classe dirigente (nazionale e locale, di maggioranza e non solo) che ha concretamente animato questo esperimento. Un fallimento che ha fatto diventare la «Casmez» il simbolo della politica (e della dominante cultura) delle clientele. Che ha generato i viadotti interrotti nel vuoto, le dighe in eterna costruzione, le autostrade sempre in rifacimento, le industrie collocate a casaccio per soddisfare questo o quel capocorrente, le opere mai finite. Nel 2000 un rapporto dell’allora ministro Nerio Nesi stimava l’esistenza di addirittura 22.000 pratiche ancora «aperte».
Il successo della Cassa del Mezzogiorno è così lo specchio del suo fallimento. Venne inventata nel 1950, secondo governo De Gasperi, da giganti come Pasquale Saraceno e Donato Menichella, come traduzione italiana della Tennessee Valley Authority realizzata da FDR vent’anni prima. L’Italia del dopoguerra era un Paese dove quasi metà della popolazione viveva in un Mezzogiorno poverissimo divorato dalla miseria, dalla fame, dall’analfabetismo. Un Sud dove in tanti vivevano ogni giorno esattamente come i loro progenitori di secoli prima.
Si cominciava con uno stanziamento di 1000 miliardi di lire per dieci anni, da spendere (risorse aggiuntive agli altri programmi statali) per strade, acquedotti, porti, bonifiche. Ben presto si partì con misure finalizzate all’industrializzazione del Sud: crediti agevolatissimi, contributi a fondo perduto, oneri sociali per i dipendenti a spese dello Stato, realizzazione di aree industriali. Seguì - grazie alle aziende pubbliche, che allora facevano quello che diceva lo Stato - la realizzazione dal nulla di ingentissimi investimenti industriali innovativi, le «cattedrali nel deserto» che dovevano fecondare il deserto produttivo meridionale. Alcuni furono un clamoroso buco nell’acqua, come i petrolchimici spazzati via dagli shock petroliferi degli anni ”70. Altri furono un successo, come l’acciaieria di Taranto: perdeva miliardi sotto l’Iri, guadagna con il nuovo proprietario Riva. Ma c’era la politica: quella che faceva deviare le autostrade per gratificare i ras, che gestiva le assunzioni e i soldi in cambio di voti, quella che concordava gli appalti con «amici» mafiosi e accettava il cemento armato di sabbia. Poi arrivò l’Europa, che costrinse a rivedere al ribasso i benefici erogati. Poi il crack del bilancio pubblico: Craxi, Pomicino. E Tangentopoli.
Nessuno, neanche il più aspro detrattore, può negare che l’«intervento straordinario» abbia cambiato l’Italia, anche se si possono nettamente distinguere due stagioni: una, virtuosa, tra il 1950 e il 1970, e una decisamente meno virtuosa, fino all’abolizione finale nel 1992-1993. Lo Svimez (sono dati acclarati) ha computato dal 1950 al 1992 18mila chilometri di nuove strade, quasi 23mila di acquedotti, 40mila chilometri di reti elettriche, 1.600 scuole, 160 ospedali. A che costo? Tra il 1951 e il 1992 sono stati spesi 279.763 miliardi di lire, un po’ meno di 140 miliardi di euro (esattamente 139.881.500.000), 3,5 miliardi l’anno di media. Più o meno quanto il buco della spesa sanitaria delle Regioni, o il gettito dell’Ici prima casa abolito dal governo Berlusconi. Tanti soldi, pochi? Gli economisti stimano che per l’intervento straordinario è stato speso ogni anno circa lo 0,7% del prodotto interno lordo italiano. Non è moltissimo, adesso addirittura (senza Casmez) è lo 0,8%. Il problema è che sono stati soldi spesi male, se è vero - come è vero - che nonostante questo sforzo quarantennale il Mezzogiorno produce ancora oggi solo il 24 per cento del Pil complessivo dell’Italia. E che il reddito pro capite di ogni cittadino del Sud è solo il 60% di quello del cittadino del centro-nord.