Diego Gabutti, ItaliaOggi 5/8/2009, 5 agosto 2009
Perfino Cossiga si pente del suo passato da picconatore - Francesco Cossiga, autocritico e malinconico, ha confidato al Corriere della sera che, potendo disfare quel che è fatto, non ricorrerebbe più alle armi improprie, come alla fine degli anni ottanta, caduta la cortina di ferro, quando tentò d’abbattere la prima repubblica a picconate
Perfino Cossiga si pente del suo passato da picconatore - Francesco Cossiga, autocritico e malinconico, ha confidato al Corriere della sera che, potendo disfare quel che è fatto, non ricorrerebbe più alle armi improprie, come alla fine degli anni ottanta, caduta la cortina di ferro, quando tentò d’abbattere la prima repubblica a picconate. Naturalmente, benché lasciassero qua e là dei lividi, e non fossero esattamente innocue, le sue erano picconate metaforiche. Cossiga, che all’epoca era presidente della repubblica, abbattè sulla testa e sulla schiena del sistema politico italiano, già allora buono per la rottamazione, il piccone delle spiritosaggini e, per capirci, anche un po’ il randello delle barzellette. Furono infatti le sue picconate a fare da apripista alle future performance da intrattenitore di Silvio Berlusconi (o a tirarcele addosso, come una sciagura). Ma Cossiga, a differenza del Cavaliere, fece soprattutto largo uso dei sarcasmi, con i quali l’attuale presidente del consiglio, per quanto bravo a raccontare storielle scollacciate di cui è sempre il primo a ridere, non ha invece alcuna confidenza (Berlusconi semplicemente non capisce il sarcasmo, tant’è vero che accetta senza diffidenza i complimenti, che del sarcasmo, come dell’ironia, sono il più classico dei travestimenti). Cossiga, in ogni modo, è pentito. Vent’anni dopo, tirate le somme, è chiaro che tutto quello humour è andato sprecato: non c’è stato un happy end. Per scuotere l’albero della grande riforma (un disegno che già nel 1989, quando ancora non si era posata la polvere sollevata dal crollo del Muro di Berlino, prevedeva lo sdoganamento del partito comunista) Cossiga non esitò a inimicarsi l’intera Dc. Ma fu tutto inutile: non servì a niente prendere i leader democristiani per il naso. Piuttosto di cambiare, la Democrazia cristiana preferì svanire, non appena sorse l’alba di Mani pulite, come un brutto sogno. Non servì a niente nemmeno dare dello «zombie con i baffi» all’ultimo segretario comunista, il povero Achille Occhetto: la cultura marxleninista italiana, boriosa e bacchettona, non imparò niente dai frizzi e dai lazzi di Francesco Cossiga (e si è anzi perpetuata, tale e quale, antipatica e cialtrona, attraverso la seconda repubblica, equamente divisa tra ex, neo e post, fino ai nostri giorni). Nemmeno le picconate più azzeccate e divertenti smossero d’un millimetro la palude italiana. Fallirono anche le battute migliori. Fu Massimo D’Alema, dice adesso Cossiga, «il solo a capire», ma si sa che l’ex presidente della repubblica, amando l’orrido, ha sempre avuto un debole per D’Alema, al punto che nel 1998 lo incoronò presidente del consiglio (spintonando via Romano Prodi, che invece a Cossiga è stato sempre sull’anima). Sta di fatto che ci volle Tangentopoli per abbattere la prima repubblica. Fu Antonio Di Pietro, che del sarcasmo è un naturale bersaglio, proprio come Ridolini, che era nato per prendersi le torte in faccia, a riuscire dove avevano fallito il colpo le ironie di Francesco Cossiga. Come Bettino Craxi, che pagò il tentativo di rifare l’Italia con l’esilio, e come il Cavaliere, che continua a minacciare rivoluzioni liberali, anche Cossiga voleva cambiare il mondo. Gli andò male, come a tutti i «riformatori» italiani, gli unici al mondo con le virgolette. Di qui la sua amarezza, e la nostra.