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 2009  agosto 03 Lunedì calendario

NEI PVS C’E’ TERRA (QUASI) PER TUTTI


Acquistati decine di milioni di ettari per produrre cereali e biocarburanti

I maggiori "predoni" del XXI secolo si chiamano Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Cina, Corea del Sud, Egitto, India, Libia e ora anche Vietnam. Insieme a un gruppo d’investitori privati a caccia di rendimenti facili e sicuri. Hanno fame di terra agricola per produrre cibo e biocarburanti. Senza scordare i grandi allevatori, interessati a estensioni enormi per allevare capi da carne ma anche ovini che danno lane pregiate. Così hanno iniziato a piantare le loro bandierine sui campi di Paesi poveri o in via di sviluppo e a coltivarli secondo i propri bisogni, riportando in patria i raccolti. E i pingui profitti.
Le vittime sono gli abitanti dell’Africa sub-sahariana, della cintura fertile dell’Europa dell’Est, estesa dall’Ucraina alla Russia meridionale, i cittadini di diversi Paesi asiatici, mediorientali e sudamericani. Ma la lista si allunga ogni giorno, con il risultato che milioni di uomini e donne si possono ritrovare da un momento all’altro senza un fazzoletto di terra da arare o dove far pascolare il bestiame.
Oggi le persone che nel mondo soffrono la fame sono più di un miliardo, ma ciò non preoccupa più di tanto chi sta dietro a questo business. L’Istituto internazionale di ricerca sulla politica alimentare (Ifpri) di Washington ha provato a calcolare le dimensioni del fenomeno: dal 2006 all’aprile scorso sono stati negoziati con soggetti stranieri circa 20 di milioni di ettari di terra, un’estensione pari a tutta l’area coltivata in Francia o a un quinto di quella dell’Unione europea. Tradotti in denaro, questi contratti valgono non meno di 20-30 miliardi di dollari. Per usare un’altra unità di misura, a regime tutto ciò si tradurrà in 30-40 milioni di tonnellate di cereali l’anno, su un totale di circa 220 milioni oggetto di scambi a livello mondiale.
Prezzi in crescita
Tra i principali motivi che spingono i governi ad acquistare o affittare terreni agricoli all’estero c’è la forte crescita dei prezzi alimentari. Questi ultimi, anche se non sono ai livelli record della primavera 2008, viaggiano ancora sopra la media degli ultimi anni: l’indice Fao, che segnava 114,6nel 2005, era salito a ben 150,4 lo scorso giugno (i cereali sono schizzati da 103,4 a 185,1 i semi oleaginosi da 103,6 a 159,6). Tra il 2007 e la metà del 2008, inoltre, diversi esportatori di cereali, come India e Ucraina, hanno bloccato le vendite all’estero per favorire i propri cittadini. E per chi non ha potuto contare sulla produzione interna sono stati guai.
Tanto per fare un esempio, secondo l’Ong catalana "Grain", negli ultimi 5 anni la bolletta alimentare dei Paesi del Golfo è balzata da 8 a 20 miliardi di dollari. Questi Stati, tanto ricchi di petrolio quanto poveri d’acqua e terre fertili, hanno temuto per la propria sicurezza alimentare, iniziando a staccare assegni e promesse di finanziamenti a piani di sviluppo per assicurarsi i terreni: stando a quanto ha riportato The Economist a fine maggio, i Paesi arabi hanno deciso di aumentare gli investimenti nell’agricoltura sudanese da 700 milioni di dollari a 7,5 miliardi tra il 2007 e il 2010.
I terreni sono più attraenti oggi di qualche anno fa, anche per il diffondersi dei biocarburanti. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, nel 2006 circa 14 milioni di ettari di terra agricola, l’1% di quella disponibile, erano utilizzati per questo scopo e la Fao ritiene che si arriverà a una quota compresa tra il 2 e il 3,5% entro il 2030 (il che metterebbe a rischio la sorte di 60 milioni di abitanti del Terzo mondo).
I principali investitori privati del settore sono le aziende dell’industria alimentare e quelle finanziarie, duramente colpite dalla crisi. Nel primo gruppo, afferma uno studio di "Grain", si trovano soprattutto società giapponesi e arabe. Nel corso del 2008, poi, si è fatto avanti un esercito d’investitori di vario tipo – come fondi di private equity, hedge fund, fondi sovrani e banche – sostenuto dalle politiche della Banca mondiale e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), che incoraggiano i Paesi in via di sviluppo ad attirare i capitali stranieri.
Tra i gruppi attivi 2008 in questo campo vanno ricordati Deutsche Bank, Goldman Sachs, il colosso newyorkese BlackRock, Morgan Stanley e la russa Renaissance Capital. Hanno fatto incetta nell’Europa meridionale anche le svedesi Black Earth Farming e Alpcot-Agro, così come la britannica Landkom. Tutte acquisizioni mirate a produrre grano, olio, carne o latticini. L’orizzonte temporale di questi investimenti è di una decina d’anni e i programmi d’investimento, per ciò che è dato sapere, sono del 10-40% in Europa e fino al 400% in Africa.
Molti spazi liberi
Il Continente nero, del resto, è anche uno di quelli che offre più spazio libero: nell’Africa subsahariana, così come in America latina, è utilizzato solo il 14% della terra disponibile (in Europa siamo oltre il 55 per cento).
Ad attrarre gli investitori verso i Paesi africani, poi, ci sono spesso i grandi sconti concessi dai governanti. quanto emerge da un recente studio dell’Istituto internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (Iied), realizzato su richiesta della Fao e del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, che ha documentato 2,5 milioni di ettari di terre cedute negli ultimi 5 anni da Etiopia, Ghana, Mali, Madagascar e Sudan.
Per il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, però, di questo passo si rischia una sorta di "neocolonialismo". Ciò che è certo già finora è che le popolazioni locali iniziano a ribellarsi ai soprusi. Il caso più noto è quello legato al colosso sudcoreano Daewoo Logistics, che nel novembre 2008 ha cercato di mettere le mani su 1,3 milioni di ettari in Madagascar. finita con una rivolta popolare e la caduta dell’allora presidente, Marc Ravalomanana. Ma non è un fatto isolato. Il gruppo saudita Binladin ha dovuto interrompere un progetto da 4,3 miliardi di dollari in Indonesia e la Cina ha rinviato un affare da 1,2 milioni di ettari nelle Filippine. Così come gli abitanti dell’Uganda si sono mobilitati contro l’affitto di 840mila ettari all’Egitto.
Anche se durante l’ultimo G-8 si è già detto pronto ad affrontare il problema e a individuare regole condivise, come il premier nipponico Taro Aso (peraltro oggi dimissionario), restano contraddizioni difficili da superare. In Etiopia, mentre il Programma alimentare mondiale spenderà 116 milioni di dollari tra il 2007 e il 2011 per portare cibo, i sauditi hanno investito un centinaio di milioni per affittare terreno e produrre grano, orzo e riso da consumare a Riad. Stessa situazione si è creata in Cambogia, con l’affitto delle risaie a Qatar e Kuwait. E in Sudan, dove il Programma alimentare sta cercando di soccorrere i rifugiati della crisi del Darfur.