Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  agosto 04 Martedì calendario

GOLDMAN SACHS, IL MITO IN CRISI. DI FIDUCIA


Il New York Magazi­ne l’ha disegnata, la settimana scor­sa, in copertina come un «moloch» minaccioso e si è chiesto, nel titolo, se la Goldman Sachs sia la materializ­zazione del male. Quella che fino a ie­ri era considerata la regina di Wall Street – la banca più redditizia, se­ria, affidabile – è finita anche nel mi­rino di Rolling Stone che, in una lun­ga inchiesta, l’ha descritta come una piovra nociva per la finanza e per l’in­tera società americana, una vera e propria fabbrica di bolle speculative. Da una rivista giovanile di musica e politica non c’è, forse, da aspettarsi un’analisi pacata di errori ed eccessi commessi dai protagonisti del capita­lismo Usa, ma la sensazione che la cri­si abbia seriamente compromesso la reputazione della Goldman Sachs è ormai diffusa nell’intera opinione pubblica americana e anche tra i ri­sparmiatori.

A sostenerlo è addirittura il Finan­cial Times che ieri ha pubblicato i ri­sultati di un sondaggio commissiona­to a una società di consulenza dallo stesso quotidiano finanziario. La Brand Asset Consulting ha intervista­to 17 mila cittadini americani arrivan­do alla conclusione che la banca più redditizia del mondo, quella che ha dato al governo Usa due ministri del Tesoro (Henry Paulson e Bob Rubin), leader politici, diplomatici e capi di istituzioni internazionali (dal gover­natore del New Jersey Jon Corzine al presidente della Banca Mondiale, Ro­bert Zoellick), ha perso prestigio e credibilità tanto tra la gente comune quanto tra chi ha una conoscenza ap­profondita del mondo della finanza. Fino al punto che Morgan Stanley, un’altra banca d’affari la cui credibili­tà, in passato, è sempre stata molto inferiore a quella della Goldman, og­gi gode (nel sondaggio) di maggiore rispetto.

Cosa sta accadendo? Perché que­sto accanimento nonostante la banca guidata da Lloyd Blankfein non sia stata toccata in modo specifico da al­cuno scandalo finanziario? Se lo chie­dono con angoscia i dirigenti dell’isti­tuto e i suoi addetti alla comunicazio­ne anche perché il ritorno della ban­ca a livelli record di profitti e la resti­tuzione dei prestiti avuti nove mesi fa dal Tesoro, anziché migliorare la si­tuazione, sembrano aver accentuato il malumore dell’opinione pubblica.

In quanto istituzione-simbolo, Gol­dman certamente è la prima a pagare la disaffezione degli americani per la finanza, la rabbia dei contribuenti nei confronti di Wall Street. Ma c’è an­che dell’altro. Se prima dello «tsuna­mi » finanziario era ancora possibile mantenere un livello di reputazione molto elevata, pur in presenza del pa­gamento di bonus milionari a un gran numero di dirigenti e «broker» e di transazioni nelle quali si sfiorava il conflitto d’interessi, dopo il crollo e la recessione pagata dai cittadini ame­ricani con la disoccupazione, le tasse e l’esplosione del debito pubblico, nulla è più come prima.

Considerate le principali responsa­bili del disastro, le banche hanno rico­nosciuto le loro responsabilità, ma poi si sono rimboccate le maniche e, aiutate dai contributi del Tesoro e dal denaro prestato dalla Federal Reser­ve a costo zero, hanno ricominciato a macinare utili. Ora, rimborsati i soldi avuti dal Tesoro, alcuni di questi isti­tuti non solo non hanno più voglia di chiedere scusa, ma vogliono tornare al vecchio modo di fare affari, a parti­re dall’elargizione di megabonus ai lo­ro dipendenti.

Goldman Sachs, celebre per «rico­prire d’oro» non solo i suoi capi, ma anche gran parte del personale, è – inevitabilmente – la banca più espo­sta. I profitti record realizzati nel se­condo trimestre 2009 (3,4 miliardi di dollari) si sono infatti tradotti in un accantonamento di risorse da distri­buire in compensi molto più cospi­cuo: 6,6 miliardi di dollari, pari a 226 mila dollari per ogni dipendente del­l’istituto. In soli 90 giorni.

Certo, Goldman ha restituito al Te­soro i 10 miliardi di dollari avuti in prestito nell’autunno scorso e ha ri­scattato i «warrants» che avrebbero dato al governo Usa il diritto di entra­re nel suo capitale. Ma l’opinione pub­blica si è ormai convinta che i profitti realizzati dalla regina di Wall Street sono in larga misura il frutto di attivi­tà speculative con un forte potere de­stabilizzante – dalle scommesse sul­le materie prime che fanno schizzare il prezzo del petrolio al cosiddetto «high frequency trading», una tecni­ca esasperata di moltiplicazione delle transazioni, eseguite in pochi millesi­mi di secondo – che mal si concilia­no con l’immagine che Goldman ha sempre cercato di dare di sé: quella di una forza tranquilla e responsabile davanti ai suoi clienti e all’intera so­cietà americana.

Per anni il pubblico e i risparmiato­ri hanno creduto alla rappresentazio­ne di una banca i cui leader, riuscen­do a fare soldi con grande facilità, avevano come supremo interesse non l’arricchimento personale – una realtà ormai scontata – ma la ge­stione professionale, efficiente, di un potere smisurato, che dalla finanza si allargava fino alla politica.

La crisi ha cambiato questa perce­zione per tre motivi.

1) Nel momento del crollo dei mer­cati, Goldman ha talvolta eseguito, per conto proprio, operazioni di se­gno opposto rispetto a quelle esegui­te per conto dei suoi clienti. succes­so, ad esempio, con le scommesse sul mercato dei mutui «subprime».

2) Conflitti d’interesse, oltre che nei rapporti coi clienti, sono anche emersi nelle relazioni con organismi governativi. L’idea che il passaggio di uomini Goldman nei ranghi dell’Am­ministrazione fosse una sorta di «ser­vizio civile», con la banca che mette­va l’alta professionalità dei suoi diri­genti al servizio del bene comune è stata, in parte, minata da favoritismi che, nell’autunno scorso, hanno con­trassegnato la convulsa gestione de­gli interventi di salvataggio del siste­ma creditizio: dopo il fallimento di Lehman Brothers, vertici d’emergen­za affollati di uomini Goldman e un salvataggio di Aig deciso dal mini­stro Paulson (ex capo della banca) che ha avuto anche l’effetto di puntel­lare la banca guidata da Blankfein, le­gata a doppio filo al gigante assicura­tivo. Una situazione che ha portato qualche analista a ribattezzare scher­zosamente la banca «Government Sa­chs ».

3) Restituire i soldi avuti dal Teso­ro non è bastato a cancellare questa fama e a giustificare il recupero di una piena libertà d’azione: dopo la pa­ralisi del credito, quando nessuno riu­sciva più a collocare obbligazioni, nemmeno Goldman avrebbe potuto riavviare i motori senza la garanzia pubblica della Fdic sulle sue emissio­ni.

Insomma le ferite, sul fronte della fiducia, sono profonde e difficili da ri­marginare: Goldman non ci riuscirà certo isolandosi, coi suoi dipendenti, in una bolla dorata o osteggiando la riforma dei meccanismi di controllo del sistema finanziario presentata qualche mese fa da Obama e dal mini­stro del Tesoro Tim Geithner e, da al­lora, bloccata sul bagnasciuga del Congresso, sotto il fuoco delle lobby. Certo, queste sono responsabilità del sistema creditizio nel suo com­plesso e non di una sola banca. Ma chi ha ricostruito gli antefatti della crisi attuale, sa che sulle decisioni che dieci anni fa hanno compromes­so i meccanismi di supervisione che avrebbero potuto prevenire la crisi che stiamo vivendo hanno pesato molto l’attività lobbistica di Gold­man Sachs (che dal 1998 al 2008 ha distribuito oltre 40 milioni di dollari in contributi ai politici Usa) e le scel­te di uomini di governo con un passa­to nell’istituto.