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 2009  agosto 01 Sabato calendario

COSI’ IL SUD SOGNO’ IL SUO «NEW DEAL»


GLI UOMINI - Fu la confluenza di visioni culturali diverse: cattolici come Saraceno incontrarono laici come de Capraris e socialisti come Rossi Doria - L’IDEA - Doveva servire a superare quello che Fortunato definiva «il rivendicazionismo straccione e scomposto», poi la degenerazione

Non c’era ancora la Lega, ma già dagli anni 80 in poi dire Cassa per il Mezzogiorno era quasi pronunciare «una mala parola». Con un facile e generico conformismo ad essa si attribuivano la gran parte dei mali del Mezzogiorno: dalla dilapidazione dei soldi pubblici alle degenerazioni clientelari della vita politica meridionale. Ma le cose non stavano esattamente così. Attorno all’idea della Cassa c’era proprio l’obiettivo dicontrastare un certo modo di essere della vita pubblica del Sud. Serviva ad evitare e non a favorire i cosiddetti interventi a pioggia. Ad uscire da quello che Giustino Fortunato considerava «un rivendicazionismo straccione e scomposto».
Il fatto è che pensare alla Cassa e all’intervento straordinario portava a pensare al peggio della classe dirigente meridionale, alle lotte tra poveri per aggiudicarsi i finanziamenti e per ottenere le localizzazioni industriali secondo la topografia delle correnti democristiane e socialiste dell’epoca. Insomma Cassa e intervento straordinario si identificavano nell’opinione comune con gli scontri tra Gava Pomicino e De Mita o, in campo socialista tra Giacomo Mancini e Francesco Principe.
Eppure l’idea della Cassa (realizzata nel 1951) era stata di un grande economista cattolico, docente all’Università Cattolica di Milano e a quella di Venezia, Pasquale Saraceno. Era un economista molto vicino alla Democrazia Cristiana, anche per vocazione familiare: aveva sposato la sorella di Ezio Vanoni e la figlia era la moglie di Tommaso Morlino, più volte ministro e, da ultimo, presidente del Senato. Ma su quella idea si erano ritrovati politici e studiosi di scuola liberale, come Vittorio de Capraris e Francesco Compagna, e socialista, come Manlio Rossi Doria e il più giovane Giorgio Ruffolo. In pratica nella battaglia per la Cassa, si ritrovarono insieme le culture di Giustino Fortunato e Guido Dorso con quelle di Luigi Sturzo e di Gaetano Salvemini.
Diverso fu l’atteggiamento dei comunisti. Nonostante l’interesse con il quale guardava all’istituzione dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, il capo della Cgil Giuseppe De Vittorio, il Pci contrastò duramente, in un duro scontro parlamentare sotto la guida di Giorgio Amendola, l’istituzione della Cassa. Perché, a loro giudizio, essa sarebbe servita a rafforzare il sistema di potere della Dc e dei suoi alleati, spesso di destra nelle regioni del Sud.
In realtà la modernità del l’idea (siamo nel’Italia del 1951) è nel superamento della tradizione di uniformità dello stato unitario e della concezione per la quale la questione meridionale si poteva risolvere attraverso il corretto funzionamento dell’amministrazione ordinaria. Con l’istituzione della Cassa (a cui venne assicurato, con la legge istitutiva, un finanziamento di mille miliardi di lire) viene introdotto il carattere di straordinarietà, per il quale gli interventi della Cassa dovevano essere «aggiuntivi» rispetto a quelli «ordinari».
Ma quella della Cassa fu anche un’idea "americana". I meridionalisti cattolici, liberali e socialisti che puntavano sull’intervento straordinario guardavano con grande interesse a quella che era stata l’esperienza del New Deal rooseveltiano. Come ha ricordato Antonio Maccanico, in un convegno del marzo scorso su "il pensiero culturale laico nel Mezzogiorno e la sua influenza sulle prospettive del Sud", «negli Stati Uniti, paese fortemente federale, l’eliminazione degli squilibri territoriali nel periodo del new deal, furono opera del governo federale. La Tennessee Valley Authority fu opera del governo di Washington e non del governatore del Tennessee». Come dire che anche in tempi di federalismo, è possibile pensare ad un ruolo fondamentale dello Stato per cercare di risolvere le grandi questioni nazionali.
Negli anni cinquanta, nei quali il Mezzogiorno era percepito soprattutto come Lauro ed Uomo qualunque, i meridionalisti guardavano ben fuori dei confini regionali e nazionali per trovare qualcosa che rompesse l’isolamento geografico, ma anche politico delle regioni meridionali. La questione meridionale, già approdata alle pagine del Mondo di Mario Pannunzio, cominciava a trovare spazio sui grandi quotidiani nazionali. I meridionalisti, che davvero erano assai poco profeti in patria (era il Sud delle amministrazioni laurine) riuscivano a trovare ascolto al Nord, facendo così del Mezzogiorno una grande questione nazionale.
Personalmente posso ricordare la soddisfazione di mio padre Francesco Compagna, che in quegli anni avviava una collaborazione giornalistica con "La stampa" di Torino. «Capite – diceva ai suoi amici e collaboratori – questo vuol dire che posso parlare ai torinesi della Cassa e della questione meridionale». In realtà in quegli anni la piazza di Torino non era delle più facili: dinanzi all’ondata migratoria dei "terroni" che andavano in città a cercare lavoro spuntavano eloquenti cartelli: «Non si affittano case ai meridionali».
La Cassa per il Mezzogiorno è finita nel 1993. E non a caso le sue ultime vicende hanno accompagnato la fine della cosiddetta prima Repubblica. Resta il fatto che la sua è stata per molto tempo una storia nobile. Soprattutto negli anni dell’avvio i suoi amministratori (da Pasquale Saraceno a Gabriele Pescatore a Michele Cifarelli) sono stati tra i migliori servitori dello Stato. Purtroppo, alla fine, è stata la classe politica, quella meridionale in prima fila, a dimostrarsi non all’altezza di quella che comunque era stata un’idea di modernità. A conferma del fatto che la questione meridionale, come ricordava Salvemini, è ancora adesso, prima di tutto «la questione del buon governo». Il cui presupposto è la capacità e autorevolezza, anche morale, delle classi dirigenti.