Francesca Paci, La Stampa 4/8/2009, 4 agosto 2009
Finché era brandita in piazza dai più apocalittici tra ambientalisti e noglobal, la fine dell’età dell’oro nero poteva passare per profezia da menagrami
Finché era brandita in piazza dai più apocalittici tra ambientalisti e noglobal, la fine dell’età dell’oro nero poteva passare per profezia da menagrami. Ma se la fiducia nelle umane sorti e progressive vacilla ai piani alti dell’International Energy Agency di Parigi, il tempio della politica energetica occidentale, la questione si fa seria. In un’intervista al quotidiano The Independent il direttore economico dell’Iea, Fatih Birol, sposa le peggiori previsioni: «Un giorno resteremo a secco. Non sarà oggi né domani, eppure dovremo abbandonare il petrolio prima che lui abbandoni noi. Prepariamoci perché modificare il sistema costerà tempo e denaro». La produzione di greggio diminuisce del 6,7% l’anno, il doppio rispetto a quanto ipotizzato nel 2007 dall’Iea. Di questo passo, avverte Birol, ci troveremo in riserva in men che non si dica: «Tra dieci anni, a parità di consumi, avremmo bisogno di 4 Arabie Saudite per mantenere gli standard attuali. Non ne basteranno 6 se saranno confermate le stime e la richiesta aumenterà fino al 2030». «I governi farebbero bene ad ascoltare l’Iea: è come se la Banca Mondiale avesse annunciato la crisi finanziaria», spiega il geologo Jeremy Leggett, ex consulente petrolifero e fondatore della Solarcentury, multinazionale dell’energia solare. Nel libro Fine Corsa denuncia l’omertà che avvolge il problema: «Nonostante ogni settimana venga pubblicato un nuovo rapporto la cultura del silenzio resiste. Finché, per esaurimento dei giacimenti o per la domanda del mercato, i prezzi lieviteranno e dovremo correre a cercare energie alternative». Fatih Birol parla di discesa irreversibile. Molti degli 800 siti da cui provengono tre quarti dell’oro nero planetario avrebbero già oltrepassato la soglia di massima produzione lasciando nelle mani dei paesi più dotati, quasi tutti mediorientali e restii a investire in infrastrutture, un potere destinato a crescere già dal 2010. «Il culmine dell’estrazione risale al 1964, oggi per ogni barile raffinato ne vengono consumati quattro» osserva Colin J. Campbell, ex petroliere, fondatore dell’Association for the Study of Peak Oil&Gas e autore del bestseller The Coming Oil Crisis. Il tempo delle verifiche è scaduto: «L’Iea è stata a lungo strumento dei governi occidentali per negare, anche di fronte all’evidenza, l’esaurimento del greggio che, nel medio termine, avrebbe rafforzato i paesi Opec. Ora nascondere la verità è insostenibile, l’era del petrolio è al tramonto e con essa la convinzione otto-novecentesca della crescita inarrestabile». Qualcuno minimizza la tentazione ecocatastrofista sulle orme di quel Lomborg Bjørn, l’ambientalista scettico dell’omonimo libro, che alcuni anni fa scandalizzò gli ex compagni di Greenpeace argomentando la condizione per niente disastrata della terra. Daniel H. Yergin, vincitore del Pulitzer per il saggio The Prize: The Epic Quest for Oil, Money & Power, gira il mondo smentendo il requiem del serbatoio, al sicuro, sostiene, per altri trent’anni. La Cambridge Energy Research Associates, la think tank che dirige, ammette un calo della domanda ma esclude che i giacimenti possano prosciugarsi a breve. Nel frattempo però, è recessione piena. E l’economia, ragiona il leader dell’IEA, va a benzina: «La ripresa dei prossimi 5 anni sarà lenta e fragile e potrebbe essere strangolata dall’aumento del prezzo del petrolio. Spero che i governi prendano le loro contromisure». Il problema è quali, chiosa il columnist dell’Independent Steve Connor: «Ci sono ampie riserve di greggio non convenzionale come le sabbie petrolifere del Canada, ma attingervi sprigionerebbe grandi quantità di diossina». Dalla padella alla brace: se non fosse che anche il carbone ha le ore contate.